Chi opera nel campo dell’arte, sia esso l’artistaaffermato e famoso o il giovane che muove i primi passi, non puo non trasferire in cio che crea una parte di se stesso, del mondo che lo circonda, dell’epoca e della societa in cui vive: a mio modo di vedere, anzi, quando cio non avvenga, l’opera si limita ad un semplice manufatto, destinato a una breve vita, e non a vivere oltre il tempo, come accade per la vera opera d’arte. Per l’artista la materia e le tecniche che usa saranno sempre assecondate all’idea, il modo di esprimersi a cio che vuole esprimere. Attraverso le sue opere l’artista fa un lungo racconto, spesso autobiografico, sempre comunque biografico della societa e degli eventi di cui egli e partecipe: le varie sensazioni che riceve dal mondo che lo circonda, vengono filtrate attraverso la sua personalita ed espresse in opere che costituiscono i capitoli di questo racconto. Ed e qui che si inserisce, secondo me nel modo piu significativo e vorrei dire nobilitante, il discorso delle tecniche dell’espressione e, alla fine, dei materiali stessi usati dall’artista. Ogni opera esprime infatti un “momento” particolare di questo suo rapporto con l’esterno: ebbene, l’uso di un certo materiale fra tanti altri a disposizione, l’adozione di una determinata tecnica e non di un’altra, significano evidentemente che “quel” materiale e “quella” tecnica divengono elementi essenziali ad esprimere compiutamente “quel” momento. E’ evidente, a questo punto, che gli opposti di cui parlavo prima, l’espressione e i contenuti, la forma e la sostanza, divengono un tutt’uno, si amalgamano nelle mani e nelle finalita dell’artista: il modo di esprimersi e nobilitato ed assurge al livello di cio che vuole esprimere.
Elemento catalizzatore di questo processo e, naturalmente, l’uomo.
Cosi come le sensazioni esterne vengono “filtrate” attraverso la sua personalita per dar luogo ad un racconto che e appunto del tutto personale, allo stesso modo tecniche e materiali sono sottoposti a questo filtro e ne escono quasi mutati: la rigida procedura di una determinata tecnica, la fredda composizione chimica di un certo materiale, vengono utilizzate, plasmate, personalizzate dall’intervento dell’artista e assumono un’altra natura, ben piu nobile, quella stessa del suo racconto visivo. Io faccio scultura, e come chiunque operi in questo
ramo dell’arte, i miei primi passi si sono “affondati” nella terra; nella creta si sono plasmate ed espresse le mie prime esperienze.
E’ nel 1968 che forma e contenuto, tecnica ed espressione, idea e materia s incontrano e si fondono nel bronzo. Non sembri un gioco di parole, ma e affrontando in quell’anno la fusione in bronzo, che ho sentito ad un tratto di potere esprimere completamente cio che volevo dire. Inizio infatti da allora un racconto della mia societa, del nostro mondo, scritto nel bronzo, nelle sue lacerazioni, nei suoi bagliori, nella sua freddezza come nel colore di certe sue patine: sono sculture, che all’occhio della critica piu attenta parlano, infatti, di “reperti del 2000”. Nelle mie piu recenti opere si sono affiancati al bronzo altri materiali, che comportano quindi, nella composizione della scultura, l’adozione di altre tecniche particolari. A proposito proprio di queste ultime opere, il critico Ruggeri ha detto.. “A lui interessava penetrare, col rigore e l’armonia provenienti da un innato equilibrio, nel cuore della materia, sia quella che sia. Non sara percio un tradimento – una volta esauriti gli influssi del ferro e del bronzo – rivolgersi a materiali diversi”. Forse e vero, forse si avvicinano per me nuovi “momenti” che richiederanno l’uso di altri materiali, per essere vissuti ed espressi compiutamente: l’essenziale e che quei materiali, quali che siano, mi permettano di scrivere come io voglio nuovi capitoli del mio racconto. Se sara cosi lo avro scritto per qualcuno: altrimenti resteranno solo bronzo, legno, materie acriliche.
“Andiamo incontro alla Madonna che scende in città” aveva detto mia mamma. E ci eravamo avviati con i miei fratelli lungo il portico che sale al Meloncello.
Alla fine della prima rampa, all’altezza del Mistero della Visitazione, avvenne l’incontro: all’improvviso perché lì il portico gira bruscamente a sinistra. Un’arca tutta d’oro scendeva dall’alto, ondeggiando, portata a spalle da una schiera di uomini vestiti di nero … maestosa, imponente e grandissima per me allora piccolissimo. Io stavo in fondo alla scala, ed in cima, giustamente, Lei.
Fu un attimo: gli uomini e la “Madonna” passarono veloci. Ma in quell’attimo quest’arco dorato, tempestato di fiori, di corone, di angeli … riempì i miei occhi. Un attimo, un lunghissimo momento interiore, emozione profonda, che è ancora … lì.
Altre volte ho poi rivisto quell’immagine. E con occhi diversi, e con diverse emozioni: ma quella, la prima, è rimasta dentro, indelebile.
Mi è stato chiesto di “raccontare” il ricordo e la sensazione di quel pomeriggio di maggio. Il risultato è una carta “impressa”, disegnata soltanto dalla luce, perché è dello scultore rinunciare al segno e al colore di fronte alla carta: un’immagine a rilievo, tutta bianca, simile a quegli stucchi settecenteschi che tante immagini sacre tramandano.
Senza i volti di Maria e del bambino Gesù. Mi hanno chiesto: perché?… Due le ragioni, una di allora, e l’altra di oggi. E’ l’immagine quale mi rimase impressa quel giorno: due “vuoti”, profondi e scuri, nel luccichio della grande superficie dorata. Oggi so cosa c’è dietro quei vuoti. L’allora mistero si è svelato. Ma ho preferito lasciarli tali: segno di riverente omaggio dell’artista di oggi verso il santo artista che quei volti dipinse tanti secoli fa.
Nel lavorare la carta, inciderla, plasmarla, vi è la modesta testimonianza di un ricordo che si è fatto presenza devota e profonda verso la Madonna dei bolognesi tutti, della loro madonna, della Madre di Gesù.
Il progetto per la Porta Santa della Basilica di S. Paolo fuori le mura in Roma, fu proposto da Francesco Brunetti, su richiesta dell’Abate benedettino Giuseppe Nardin.
L’Abate intendeva cosi celebrare l’opera del pontefice Giovanni Paolo II, commemorando l’Anno Santo straordinario della redenzione del 1983-84, il cui motto era stato “Aprite le porte a Cristo!”. La prematura scomparsa dell’Abate e dell’artista impedirono la realizzazione dell’opera.
Nella primavera del 1986, ascoltando la messa domenicale, Francesco Brunetti fu ispirato dalla lettura della visione della Gerusalemme celeste, che l’Apostolo Giovanni descrive nei capitoli 21 e 22 dell’Apocalisse.
“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cieloe la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. […] «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello».
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.
Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza […] Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello […] Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello.
In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita […]”
La Porta e prevista in unica anta, circondata da un arco costituito dal sovrastante architrave e da due lesene laterali. L’intera raffigurazione della Porta rappresenta la storia
della salvezza: per il sacerdozio regale di Cristo, mediante la Chiesa, la redenzione trasforma l’umanita peccatrice, quando “l’Anno di grazia” del Messia sara realmente
compiuto. Al centro della Porta, in bassorilievo, e raffigurata la Gerusalemme celeste: una citta quadrata, percorsa dalla croce dorata risultante dalle dodici porte, tre per ogni lato, delimitata agli angoli dalle raffigurazioni degli apostoli; quattro quadrati, in bronzo brunito, portano incisa la sintesi della salvezza, gli ultimi messaggi dell’Apocalisse: in alto a sinistra “Santo, santo Dio, colui che era, che e e che viene”; a destra “Ecco la dimora di Dio con gli uomini, dimorera con essi ed essi saranno il suo popolo”; in basso, a sinistra, “Si, vengo presto. Amen”; in basso a destra un grande castone dorato, a suggello finale.
Nella fascia superiore della Porta, e raffigurato un Cristo crocefisso e glorioso; sotto le braccia, ancora due iscrizioni “Re dei re” e “Signore dei signori”. Ai piedi del Crocefisso, Maria Corredentrice ed il Pontefice. Nella fascia inferiore il bassorilievo evoca, con le mura, la citta terrena e, nel cerchio centrale, la drammatica presa di coscienza del peccato da parte di Adamo ed Eva.
L’architrave porta inciso il tema posto dall’Abate “Ecco sto alla porta e busso. Se uno mi sente e mi apre, io entrero e ceneremo insieme, io con lui e lui con me” (Ap. 3,20); al centro, in bronzo dorato, la simbologia trinitaria dello Spirito Santo, esattamente sopra la raffigurazione del Cristo crocefisso, sacerdote e re.
Nelle lesene e inciso il passo descritto in Ap, 21-22; a sinistra e inserito lo stemma pontificio con la frase “Aprite le porte a Cristo”; a destra e inserita la canna con cui l’angelo misura la citta. L’opera (cm 90 x 120), interamente cesellata a sbalzo con inserti di smalti policromi, e ora collocata nella Chiesa di S. Giuseppe sposo di Maria, dei Frati Cappuccini (via Bellinzona 6, Bologna) dove Brunetti ebbe l’ispirazione creativa.
Sostengo che l’Arte deve essere in grado di suscitare nell’altro emozioni, a mio parere positive, richiamare il senso del bello, del piacere di osservare e di soffermarsi a goderne. Pur condividendo in parte questi miei pensieri per quanto riguarda l’arte con la “a” maiuscola, mi spiega l’importanza ed il significato della ricerca, della sperimentazione che lì viene esposta, del continuo tentativo dell’artista di perseguire nuove strade, secondo le tecnologie via via più attuali ed adeguate alla gente del suo tempo. Se è vero che l’Arte deve suscitare emozioni, non è detto che queste debbano essere positive, l’importante è che l’autore riesca a dire comunque qualcosa all’osservatore, a comunicare; arriva a dire che non importa conoscere il pensiero dell’artista quando si osserva una sua opera, non necessariamente il pensiero, l’emozione, la sensazione del fruitore coincideranno o saranno vicini all’autore, l’importante è che l’opera susciti comunque un richiamo, una vibrazione, un pensiero. Altro poi è l’opera d’Arte, come la intendo io, universalmente conosciuta, compresa, riconosciuta, passata alla storia.
Passiamo un’ora stupenda in cui mi spiega il significato delle sue opere astratte, cui dà il nome di “Reperti”: opere di ferro e di legno, dove il materiale (putrelle, lamine, bulloni) viene da lui lavorato per assumere l’aspetto di oggetto consumato dal tempo, arrugginito, rotto e ricomposto, con il risultato finale di un reperto appartenuto al nostro tempo e conservato come testimonianza per i tempi futuri. A volte i reperti sono in bronzo fuso da modelli in cera che lui stesso compone nel suo studio. Mi spiega anche che il titolo di “Reperto” è seguito da un numero oltre il 2000, in riferimento all’anno in cui ipoteticamente sarà ritrovato dall’uomo di domani. Lo stesso numero, assegnato in ordine progressivo alle sue opere, richiama la numerazione data agli oggetti ritrovati nel corso di spedizioni archeologiche.
Il suo grande amore per l’Uomo in tutte le sue attività, i suoi manufatti, le sue diverse espressioni intellettuali, culturali ma anche manuali e artigianali, lo ha portato ad avere una grande conoscenza integrata della storia e dell’arte nel tempo, a dare grande valore a tutto ciò che rimane agli uomini come testimonianza dell’Uomo. Da qui la sua passione per l’archeologia, per i luoghi, i frammenti, gli oggetti di ogni epoca che ricordano che l’Uomo con le sue emozioni e le sue capacità ha prodotto e ricercato, permettendo ad altri di andare avanti.
Siamo ancora fidanzati quando, nel ’73, il sindaco di Modigliana, Gilberto Bernabei, gli chiede un monumento ai caduti. Checco conosce Bernabei da quando, per l’Accademia degli Incamminati organizzava il Premio Silvestro Lega. Questo gli ha permesso di conoscere molti artisti e critici famosi, da Apollonio a Restany, di instaurare con loro piacevoli rapporti di amicizia.
Il monumento, in bronzo fuso da modello in “cera a perdere”, è la sua prima grande opera; della fusione del bozzetto fa diverse copie, una la regala alla mia famiglia. Si tratta di due porte, incardinate su una struttura che ne permette il movimento di apertura e chiusura. Entrambe le ante risultano consumate e lacerate, soprattutto al centro dove un groviglio di lamine ricorda la violenza della guerra ed al contempo la forza dell’ideale. Mi ha già spiegato in precedenza che in tutte le sue sculture è presente un insieme di lamine, generalmente lucide e riflettenti luce; lo posiziona al centro, geometrico o ottico, dell’opera. Nei suoi ricordi la prima idea di questo elemento comune e conduttore delle sue opere risale a una visita a Venezia, mentre con lo zio Bruno Saetti guardavano la laguna di San Marco ed il riflesso del sole sull’acqua in movimento produceva un susseguirsi di riflessi, lineari, paralleli o convergenti. La riproduzione di questo ricordo-emozione-immagine nelle sue opere, brunite, arrugginite, consumate è perciò l’elemento di luce, di speranza, di rassicurazione oltre che di imponderabilità, di sorpresa, di rottura di equilibri codificati. Non so se da subito o con il tempo questo elemento di irrazionalità è poi diventato nella sua interpretazione il bisogno di Assoluto, la certezza dell’esistenza di Dio, il messaggio della sua fede nel divino, nella Luce e nell’Amore per l’eternità; questi, infatti, sono i significati che negli ultimi anni riferirà a chi gli chiederà spiegazione dell’inserto di queste lamine, di questi raggi, sempre più stilizzati ed essenziali.
La sua passione per la tecnologia, coma la chiama lui, per la ricerca di utilizzo di diversi materiali, bronzo, marmo, terracotta, alabastro, vetro, legno, ferro, rame, rete, pietre dure, etc. lo porta negli anni a produrre “reperti” sempre diversi tra loro, come immagine ed evocazioni storico-culturali, ma sempre coerenti con la sua ispirazione creativa.
Quando però è nel suo studio la mente è libera di viaggiare, davanti ad un blocco di fogli bianchi schizza continuamente le tante idee che a poco a poco prendono forma, sperimenta forme vecchie e nuove di espressione artistica. Come negli anni ’70, dopo aver trovato un vecchissimo libro che descrive diversi modi di patinare il metallo, riempie lo studio di barattoli e scatolette pieni di polveri diverse, come il fegato di zolfo che usa per dare ai metalli quella patina verde rame che sa di antico…
…la svolta dai “reperti” alla serie di opere chiamata “Eldorado” è ormai avviata. Quando in un altro libro antico trova la descrizione della tecnica del cesello a sbalzo usata dal Cellini, comincia a disegnare e cesellare opere su una distesa di pece nera, in cui sempre più spesso è presente l’ottone sbalzato con inserti di smalti e pietre dure.
Persiste in queste opere il richiamo all’elemento critico dell’irrazionalità e dell’Assoluto, come pure la frequente presenza di geometrie irregolari – cerchio, quadrato, triangolo – di ricerca della perfezione e di apertura all’infinito.
Quando nell’aprile del 1960 vince il I Premio per la scultura al Premio nazionale Lerici, Francesco Brunetti non ha ancora compiuto diciannove anni: tutti i critici e gli studiosi di arte contemporanea, da Umbro Apollonio a Marchiori, da Oscar Signorini ad Apuleio e a Corrado Marsan sono concordi nel riconoscere in questo Premio il momento iniziale, il “motus primo primi” dell’iter artistico del giovane scultore bolognese.
A questo riconoscimento seguiranno negli anni successivi molti altri premi, fra cui quello del Concorso per l’esecuzione di una pala d’altare nella Cappella dell’Ospedale di Padova e quello per l’esecuzione di una scultura per un ente pubblico in Bologna, dal I Premio per la scultura al “Pettenon” nel 1970 fino al “Fiorino d’oro” del 1971 per la scultura alla Biennale d’Arte di Firenze.
L’opera che ha vinto il Premio Lerici è una scultura in cotto ceramicato simulante una fusione in bronzo, di 35x20x10cm dal titolo “Vittoria alata”; sarà regalata da Francesco al fratello maggiore Gianni e ad Anna come dono per le loro nozze, nel 1961.
Ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, Gianni e Anna conservano questa stupenda scultura come uno dei ricordi più cari di Francesco.
Le sculture di Francesco Brunetti sono il prodotto di una sintesi e di una mediazione fra elementi a prima vista contrastanti, addirittura inconciliabili. La loro costruzione avviene infatti sul filo di un equilibrio fra componente emotiva e calcolo razionale ed in ciò risiede anche l’estrema attenzione, parlerei quasi di cautela, che è stata propria del giovane artista non solo nell’approntare le opere bensì nel presentarle, uscendo finalmente dallo spazio ristretto del suo studio. Si deve però aggiungere, precisando il significato della distinzione sopra accennata, che i diversi elementi confluiscono armonicamente fino a pervenire ad un unico risultato poetico. Pertanto la dicotomia proposta è di puro comodo per meglio analizzare queste sculture.
Innanzi tutto in esse è rilevabile la presenza, in come sono strutturate ed organizzate, di moduli e di assonanze proprie del costruttivismo. I piani si articolano con un gioco esatto, scandiscono spazi e volumi con il rigore e l’icasticità della geometria. Inoltre – e qui subentra già l’elemento dissociante, la contrapposizione – i materiali usati, pur appartenendo al repertorio meccanico, hanno subito nella particolare manipolazione un trattamento tale da farli riferire immediatamente ad una realtà e ad una civiltà meccanica espressa – come più precisamente si vedrà – in maniera che definirei « retrospettiva ».
Il processo operativo che Brunetti segue con rigore logico non ha comunque alcuna flessione casuale, anzi, altro non è che un’articolazione di elementi costruttivi ai quali egli dà forma seguendo una idea precostituita. Insomma non ci si trova di fronte ad un assemblage o per essere più esatti ad oggetti trovati che suggeriscono uno stimolo attraverso il loro accostamento. Al contrario Brunetti, utilizzando materiali che hanno insita una carica affabulatoria definita (come bulloni, lamiere e profilati vari di ferro), edifica le sue strutture partendo da annotazioni o sollecitazioni legate ad una osservazione e ad una critica della realtà. Siffatte sollecitazioni, che al limite possono essere, al momento della partenza, addirittura naturalistiche, determinano in lui un’idea alla quale poi è data una forma.
All’interno della struttura e della rigidità geometrica esiste anche una componente di netta estrazione espressionista. La qual cosa può essere rilevata se si osserva come le strutture non siano mai volutamente esatte, asettiche e concise. Al contrario abbiamo sempre qualcosa di incompiuto, di accennato, d scoperto e di addirittura generico e lo si deve al ricorso a patine rugginose, a saldature, che esaltano la frattura ed al tempo stesso l’unione, ad autentiche lacerazioni e modulazioni del metallo. Così, in un processo quanti mai conseguente, si articola la dialettica fra l’apporto razionale del costruire e la componente emozionale del non finito. E in tale ambito va ricercato il significato dell’opera di Brunetti.
Recentemente scrivendo sulle sculture di questo giovane artista, parlavo di reperti archeologici del ventesimo secolo e di viaggi memorativi alla rovescia, quasi che lo scultore pensi a ciò che resterà nel tempo, nel futuro. Insomma egli costruisce ricordi che testimoniano nella scansione geometrica, nelle fratture, nelle lacerazioni e in quel tanto che di incompiuto sussiste, l’impronta di un uomo, dell’homo faber del nostro secolo.
Lo scultore Francesco Brunetti è giunto alla sua prima mostra personale con sagacia e prudenza, dimostrando così di possedere quella maturità che si vorrebbe smpre accompagnasse gli artisti, qualunque sia l’età o la tendenza. Con questa mostra il giovane artista bolognese si pone con una certa autorità come una nuova presenza nel panorama della giovane scultura. Ha studiato all’Accademia di Bologna, con Mastroianni, ma le sue fonti sono altrove, forse a Venezia dove gli ha giovato il sodalizio con saetti, bartoluzzi e altri, ma indicherei anche un certo Minguzzi. Dai veneziani il gusto della pittoricità e della luce. Ecco, è la luce che condiziona i suoi grandi lastroni fusi e saldati fra studiate lacerazioni e armoniose bullonerie, dove anche il colore – superfici lavorate da una patina verde-rugginosa « all’antico »- gioca la sua parte con gusto raffinato. Come prue – e mi sembrano le sue cose migliori -, i piccoli bronzi in sé perfettamente conclusi.
Non giova domandarsi che cosa siano questi emblemi: se ipotetici reperti di un passato remoto o presunte testimonianze di un futuro altrettanto ipotetico. Non giova perché l’artista sembra per ora più interessato, per un verso alla resa della materia, per un altro verso alla ricerca di spazi aperti o chiusi, dove sente che batte, enucleato, segreto, inarrestabile, il cuore della materia.
Critica d’arte del Prof. Bertacchini rilevata dal Gazzettino (telegiornale) dell’Emilia-Romagna, in data 13/1/1970:
“Nella sala che, abitualmente, la galleria bolognese “Nuova Loggia” riserva alle rassegne di “grafica” sono esposte in questi giorni , le sculture di Francesco Brunetti. E’ la prima volta che il giovane artista riunisce, in una scelta “personale” le sue modulate, armoniose strutture, i suggestivi, lacerati “reperti” di un mondo di memoria ma anche di realtà attuali. Lastre, materiali levigati, bulloni, saldature, rendono presente la “civiltà meccanica” d’oggi, ma tutto è composto con aristocratica misura, con equilibrio di spazi e suggestioni di materia. Nelle opere di Brunetti entrano costruttività e geometrie ma anche vibrazioni emotive, fascino di forma e di pàtine. Francesco Brunetti risiede ed opera a Bologna, dove è nato e dove ha studiato prima con Ghermandi all’Istituto d’Arte, poi con Mastroianni all’Accademia.”
Non vedo perché si debba ricorrere all’archeologia – e specialmente “futura” – per comprendere l’opera di Francesco Brunetti, dal momento ch’egli svolge un discorso più che mai attuale.
E’ il discorso di chi, pur non negando, anzi amando, la civiltà delle macchine, ne denuncia tuttavia il peso, la costrizione e la limitazione che essa impone allo stesso “homo faber”, il quale resta incapsulato nel sistema di tale civiltà, con poche occasioni per svincolarsi, per esprimere liberamente la propria personalità.
E’ questo attualissimo conflitto che mi pare di leggere nelle opere di Brunetti: in quelle strutture meccaniche rigorosamente, amorevolmente ostruite, ma poi percosse e squarciate qua e là, rivestite di patine cromatiche: quasi cieli nuvolosi o mari tempestosi.
Ma non c’è in Brunetti un desiderio di “rottura”, bensì il desiderio, o meglio l’esigenza, di un maggiore e più giusto equilibrio fra il mondo delle macchine ed il mondo spirituale dell’individuo, ossia la natura. Questo preciso anelito di libertà, di amore per la natura, per le cose semplici e spontanee appare in quei particolari che, quasi brani di poesia, egli inserisce, lucidi e luminosi, liberi da ogni premeditato costruttivismo geometrico, fra le geometrie rigorose, ma tormentate, delle sue “macchine”.
E’, insomma, un discorso molto semplice, ma non privo di efficacia. Un discorso sincero ed estremamente attuale, nel quale non vedo come possa inserirsi l’archeologia, sia come pretesto emozionale, sia come mezzo espressivo. Tutt’al più in quel “sole che si leva dal mare” si potrebbe trovare il ricordo degli specchi bronzei etruschi … ma è un semplice ricordo formale, del tutto casuale e non casuale, che può darci un ragguaglio sulla cultura archeologica dell’artista: non è né il movente né il fine. In quel sole metallico, circolare, ma accidentato, c’è ancora l’espressione di quel dualismo – macchine-natuta – sul quale s’impernia tutta l’opera del Brunetti esposta a questa mostra.
Bisogna essere grati a Francesco Brunetti per almeno due ragioni: anzitutto perché, in questi tempi di eclisse, è riuscito a indicarci, con un rigore insolito, i confini che dividono – all’interno di un racconto che ci restituisce, di pagina in pagina, la passione perduta per l’avventura non sempre programmata -, sacro e profano, lingua e dialetto, scienza e caso, storia e mito e, in secondo luogo, perché, pur affrontando, dalle angolazioni più disparate, il complesso rapporto dialettico che intercorre tra materia e « oggetto » rappresentato, tra ipotesi e destino, tra « segno » e simbolo, non si è mai dimenticato di salvaguardare, a qualunque costo, una fetta di quel « giardino delle meraviglie » dove crescono, ancora, insieme ai totem dell’era tecnologica, i frutti (l’ansia, l’emozione, la grazia, lo stupore, la fede e l’umanità delle cose, ad esempio) di luoghi e proficui « viaggi memorativi alla rovescia » (come ha osservato, acutamente, Luigi Lambertini).
E bisogna riconoscere, inoltre, che Brunetti lavora sulla materia – bronzo, lamiera, profilati vari di ferro e ingredienti affini -, con la serietà di un modellista o di un « designer »: sì che lo sforzo e la costanza (anche l’amore, a ben vedere, con cui Brunetti « combina » e innalza i suoi « trofei » e i suoi totem più recenti), sono, di pezzo in pezzo, tangibili e addirittura misurabili; tanto che, volendo, si può fare una gerarchia di valori proporzionata , come non potrebbe essere altrimenti, alle difficoltà di ogni genere incontrate e superate, dall’artista, in fase di « montaggio » o di variazione delle più disparate strutture linguistiche. E con grande pazienza ha separato, con incastri o, meglio, con un puntuale e stimolante alternarsi di fratture, di lacerazioni e di saldature, i « pieni » e i « vuoti » ed ha aperto spazi accecanti e spazi « ribaltati »: ed è sceso nell’occhio del tifone – quel « vuoto », appunto, insopprimibile e aggressivo che circonda e « riempie », dal poco al tanto, anche le opere qui esposte -, col fermo proposito di farci vedere e capire la differenza che passa fra un « progetto » e lo « stile ». Fra l’incanto e la logica: fra una rosa e l’ideale albero delle rose.
Il mondo di Brunetti (la superficie, esterna ed « interna », dei suoi totem) è, dunque, come tagliato, corroso e affettato: lo si può « possedere » a pezzi e a bocconi, a capitoli e a brani. Da un certo momento della vita noi viviamo con i rifiuti e con le « occasioni » della nostra infanzia: voglie compresse, entusiasmi mortificati e slanci improvvisi « balzano » fuori con una furia insospettata e negli intervalli più innocenti. E Brunetti soppesa e rivela, di sequenza in sequenza, proprio la « distanza » che intercorre fra quei momenti, fra quegli intervalli: spingendo al massimo, di conseguenza, il potere allusivo delle « modulazioni » del metallo ed esaltando il processo di sintesi fino a trasformare la « materia » in sé e per sé in un « reperto » privo di quei dati che nei certificati di identità si chiamano « segni particolari ». Sì che lo schema di Brunetti non comporta, tutto sommato, uno scheletro vero e proprio, ma nasce da una specie di « folgorazione »: è, infine, una visione, una « forma », meglio, come possono generarla l’istinto e la « fantasia », o, in primo luogo il metodo e la metrica.
* riedita per “Galleria 9 Colonne”, Trento, novembre 1973
L’insieme degli atti, degli interventi, delle scelte ed anche delle esclusioni conseguenti, che portano Brunetti via via al compimento dell’opera e che sono riferibili al concetto ed al procedimento dell’assemblage, forniscono una chiave di lettura per quella somma di valori e di fattori che, individuati dall’artista nel momento medesimo nel quale egli compie l’operazione, sono da lui posti al centro di una azione che non viene ad essere più soltanto scelta e modificazione bensì anche ed essenzialmente sintesi di un fare, di un esprimersi nel costruire. Pertanto il processo operativo che Brunetti segue costituisce, al di là del suo stesso articolarsi, un autentico atteggiamento, un compiuto modo di essere dell’artista medesimo.
Sotto un simile profilo queste sue sculture frontali, che alludono chiaramente al fatto architettonico per la loro struttura conclusa, tramite il recupero e la cernita effettuata dalla scultore di materiali che hanno perso la loro originaria “funzionalità” pur rimanendone sempre allusivamente o in maniera indiretta depositari, introducono in una dimensione evocatrice non solo di ricordi ma anche sollecitatrice di precisi rinvii a situazioni in atto tuttora vissute ed anche, se si vuole, subite.
Gli elementi che definiscono tali atmosfere, la concretizzazione plastica di questi stati d’animo, in un alternarsi di simboli traslati del reale, sono colti ed estrapolati dalla realtà stessa in momenti diversi e non certo per quanto attiene alla mera localizzazione temporale dell’operazione dello scultore. Nella unitarietà dell’assunto delle singole opere insomma viene ad instaurarsi una frizione aperta che ha per poli opposti la realtà di oggetti o pezzi degli stessi presi in diverse situazioni del loro consumo, quasi che sia stata arrestata la loro, sia pur materica, situazione esistenziale. Con l’accostamento di questi parametri che, come si vedrà, si risolverà poi nell’amalgamarsi, nel fondersi in un tutt’uno, e con l’invenzione di una forma autonoma legata a precisi schemi ed equilibri dell’impaginazione e quindi degli spazi, Brunetti ci pone davanti a realtà nuove che alludono al tempo stesso ad un passato, ad un presente e ad un futuro. Al riguardo, tempo fa, parlammo di “viaggi memorativi alla rovescia” e di “reperti archeologici del ventesimo secolo”.
L’intento era di trascrivere per immagini il concetto cui Brunetti viene a dare forma allorquando sottolinea con ulteriori e attenti interventi manuali (intenzionalmente lasciati in evidenza come segni di una presenza umana) quei materiali che sono stati scartati o che stavano per esserlo perché giunti al punto estremo della loro vicenda, accostandovi immediatamente elementi nuovi, sempre frutto della tecnologia, meglio, della meccanica, tali da conferire un senso di solidità e di robustezza a quanto invece è infranto, squassato e che, a bella posta, è stato evidenziato con grosse saldature, patine rugginose, lacerazioni e fratture. Ma non è tutto, dal momento che il giovane scultore bolognese inserisce all’interno del contesto descritto altri elementi la cui netta geometria ed il cui rigore formale creano un ulteriore e quanto mai evidente contrasto. Queste che potremmo definire linee di luce e di forza e percorsi dello spazio sono praticamente gli unici apporti volutamente conclusi e definiti che si ritrovano nelle varie sculture. I loro ritmi, assieme al luccicore dei profilati, ne marcano le superfici, in qualche caso ne fuoriescono, altrove ne sono come coinvolti, inscatolati.
Se pertanto nella accezione generale la scultura di Brunetti ha alla base il senso e la necessità dell’espressione ed una componente indubbiamente di derivazione Dada (per la scelta ed il recupero di materiali vari), ritornando al concetto dell’espressione, proprio per il gusto della lacerazione, dell’incompiuto, si può alludere ad una attenta mutazione che dall’Informale può essere poi ricondotta, se dall’aspetto della materia si pensa come essa venga organizzata, a certi schemi del Costruttivismo e perfino del Futurismo per la dinamica anche di quelle che abbiamo definito volutamente linee di luce e di forza.
Il processo operativo dell’artista si completa con la tramutazione in bronzo dell’opera, con la fusione grazie alla quale il contrasto fra vecchio e nuovo viene come inglobato, fermato e sublimato da questo materiale che, mentre altrove nobilita con le sue patine e rende duraturo quanto altrimenti potrebbe essere aggredito dal tempo e dalle intemperie, in questo caso invece viene a sottolineare quel senso dell’effimero, quell’implicita dialettica tra passato e presente, fra ciò che si avverte, si sente, si vive e ciò che è già oggi con l’impronta e il segno di un tempo trascorso.
Il senso della nostra condizione umana ha allora il sopravvento? È possibile proseguire la lettura in chiave esistenziale puntando sull’esserci in un certo modo da cui non si può prescindere? e, al limite, è possibile citare queste quinte – parafrasando Heidegger – come altrettante “sentinelle del nulla”? La tentazione e i presupposti ci sarebbero ma probabilmente si verrebbe a radicalizzare il discorso più del consentito. In Brunetti, nella sua opera, esiste il senso del tempo, il desiderio di esprimere, o per essere più esatti, di esprimersi nel tempo senza prescindere in alcun modo dal proprio modo di essere. Il che comporta una presa di posizione e la conoscenza di una somma di fattori e non solo di uno di essi. Resta in altre parole anche lo spazio per la fantasticheria, per un racconto allusivo di sensazioni suggerite anche da immagini e ricordi accanto ad una partecipata trascrizione di un senso dell’effimero ed un naturale anelito al suo superamento.
* presentazione riedita per la mostra alla Galleria il Giorno, Milano, gennaio 1973
Francesco Brunetti, un giovane scultore bolognese, si presenta per la prima volta a Roma alle Artivisive, introdotto da una approfondita presentazione di Luigi Lambertini.
Brunetti elabora le proprie sculture armonizzando due opposti tipi di procedimento: quello dell’assemblage e equello della strutturazione di forme astratte. Il rigore costruttivo e mnemonico, con effetti sempre molto sorvegliati che ricordano, alla lontana, sia l’ultimo Ghermandi sia il primo Trubbiani. Una fitta rete di relazioni che corre tra pura invenzione plastica e materia, tra forma e oggetto, pianificata dalla fusione in bronzo, tutta giocata in un esatto rapporto di patine lucide e opache.
Vivere l’esperienza della scultura è sempre per l’artista un paradossale contendere le dimensioni concrete delle forme e degli oggetti del mondo circostante. La misura dell’invenzione, della definizione plastica sembra più che in altre espressioni farsi in scultura una sorta di rivalsa costante sui modi acquisiti della natura e dell’artificio che ci sono circostanti. La mostra dello scultore bolognese Francesco Brunetti presentato in catalogo da Luigi Lambretini, di recente allestita allo Studio d’arte contemporanea « Artivisive » di Roma ci dà esemplarmente occasione per tali riflessioni.
La scultura di Brunetti ha nei suoi stessi procedimenti di composizione un fattore di intenzionale riferimento alla realtà oggettuale già costituita e preesistente, in quanto si serve di reperti in ferro che poi rielabora in assemblaggio sino, in certi casi, a ricostituirli nella fusione in bronzo. L’operazione di prelievo giunge nell’assetto plastico a formulare il reperto in scelta espressiva, mentre l’assemblaggio ne riscatta la condizione di frammento per farlo assurgere a componente di sintesi plastica. Ed è credo proprio nel transito di questi due momenti operativi che emerge la singolare capacità inventiva del nostro artista. L’intervento di elaborazione pur conservando come operazione poetica la suggestività di un azzardo che ci richiama certi noti proponimenti dada, si differenzia tuttavia per una subito evidente intenzionalità costruttiva dell’assetto plastico che evita ogni possibile suscitazione di ambiguità dadaista.
Un’organizzazione mentale dello spazio attraverso la proposta architettonica della forma ci sembra possa definirsi la scultura di Francesco Brunetti che espone in questi giorni alla Galleria “Arti Visive”, acutamente presentato al catalogo da Luigi Lambertini.
La proposta tutta frontale della visione assume, in tal modo, il significato di una novella araldica che vede nella accentuazione della civiltà del nostro tempo – eminentemente tecnologica- l’affermazione di un principio conoscitivo delle relazioni che tra uomo e ambiente vengono a stabilirsi e che, secondo Brunetti, restano relazioni d’oggetto.
In tal modo la vicenda dello scultore bolognese assume il sapore di una lunga ricerca attraverso i rifiuti della società stessa: l’assemblage materico diventa la risposta. Ed è in questa fase che si realizza, a nostro avviso, quella organizzazione dello spazio cui accennavamo. L’oggetto trovato e reinventato nel modo in cui viene proposto, paga il tributo ad una siffatta condizione, ed è un tributo in termini di rimpianti, di réverie, anche (con la dichiarazione di fede verso certo clima bolognese: Ghermandi primo fra tutti) per risultare alla fine, autonomamente valido nei significati emblematici. Ecco perché l’incontro con la materia in Brunetti è sempre dialogico. Egli crede nella forma nella validità che una riproposta in questi termini conserva (proiezione dell’io esistenziale), e guarda, pertanto, alla strutturazione del linguaggio. Un modo di aggrapparsi ad una realtà, dunque, nella impossibilità di risolversi fuori dalle categorie. La fiducia nell’uomo, infine, e nelle di lui capacità liberatorie.
La materia (il ferro, il bronzo, i profilati, la bulloneria) che cerca uno spazio suo proprio, anche con indulgenze pittoriche (la patina brunita, il verderame, il lucore del bronzo levigato) è ancora l’argomento portante nell’opera di Francesco Brunetti, esposta in questi giorni alla galleria Alexandra, presetata da Corrado Marsan e Luigi Lambertini.
Lo scultore bolognese conferma dopo la sua prima personale a Bologna nella scorsa stagione, con quanto prudente impegno muove i suoi passi. Seppure giovane la sua divisa sembra voler essere: “Non ho tempo per commettere sbagli”. E con polso fermo e idee chiare ci consegna con la precisione del designer manufatti eccellenti, che non lasciano scorie e si impongono con sicura autorità.
“L’artista deve esprimere il proprio tempo, però ciò non comporta una completa rinnegazione del passato”: sembrerebbe essere questo il motto di Francesco Brunetti, dopo aver visto la sua scultura.
Le sue opere sono sculture-evento, sculture-quadro, superfici lavorate, nelle quali è evidente il concetto attuale di convergenza fra pittura e scultura. La coscienza dell’intercomunicabilità e dell’incerto confine fra le arti, che era già nel Decadentismo ottocentesco, oggi si è affermata in campo artistico in concomitanza con l’uso di materiali nuovi e antitradizionali, sì che alcuni artisti si proclamano non più pittori o scultori, ma operatori estetici.
Ormai abbiamo visto nelle gallerie le materie plastiche dell’era tecnologica, mentre la pop art ci ha mostrato pasticcini di gesso e bottiglie di coca-cola, l’arte povera ci ha proposto carbone e sabbia. Ogni artista che si rispetti fa le sue scelte e anche Brunetti le ha fatte, convinto anzitutto, come Klee, che l’arte non tanto copia le cose visibili, quando rende visibile qualcosa. Le sue sculture rendono visibili delle emozioni fantastiche. Senza curarsi della moda di materiali nuovi, egli ha scelto il bronzo, lo ha liberato da ogni concezione trionfalistica e monumentale della scultura, ha riscoperto la bellezza insita in questa materia di per se stessa: una materia antica che ha accompagnato il cammino dell’uomo dai più lontani tempi, che gli è per così dire fraterna. La sua arte è indipendente dalle avanguardie tecnologiche attuali e si riallaccia alle avanguardie storiche della prima metà del Novecento: al Futurismo che aveva il culto della materia e del senso dinamico, al Suprematismo e al Costruttivismo russi per i quali l’opera d’arte viveva di per se stessa, non come mimesi del reale. E si riallaccia anche ad una significante e misteriosa bellezza arcaica, tanto che si possono vedere nelle sculture di Brunetti dei fantastici totem e dei poetici reperti archeologici.
Certo questi cerchi e questi quadrati di bronzo colpiti da frecce o percorsi da linee dinamiche o lacerati inaspettati squarci, queste superfici ruvide percorse da teneri bagliori, liberano tutta una fantastica gamma di emozioni e di sensazioni in cui ha grande importanza il gioco allusivo del linguaggio.
Presso la Galleria Alexandra è stata inaugurata la mostra personale dello scultore Francesco Brunetti. Bronzo, profilati di ferro, lamiera sono i materiali usati dal nostro giovane artista per le sue opere, che si propongono con le loro particolari definizioni formali. Definizioni che hanno origine dal rapporto dialettico fra l’arte e la materia che Brunetti mette in luce. Nell’ambito di questo rapporto l’artista interviene con le sue qualità maieutiche che consistono ne sottomettere il materiale a delle precise esigenze della forma che è a sua volta suggerita da particolari stimolazioni emozionali.
Ciò che sorprende è il fatto che tutto questo accada, non attraverso uno snaturamento del materiale – sia pure di estremo equilibrio compositivo da un punto di vista formale – ma, al contrario, attraverso una sublimazione dello stesso mediante un opportuno assecondamento delle qualità intrinseche della materia impiegata che viene potenziata nella sua essenza espressiva più autentica, al punto tale che l’artista-artigiano può ritrovare compiutamente solo in essa e per mezzo di essa la qualità vera del suo messaggio.
Il simbolismo della piastra metallica circolare « lacerata » da Brunetti senza dubbio si rivela polivalente, in rapporto alla diversa esperienza culturale di chi ne fruisce. La purezza geometrica della « forma » in cui la lacerazione è inscritta fa sì che questo acquisti quasi un valore sacrale, totemico. Ma l’irruenza esistenziale dello « squarcio », placandosi nella astratta oggettivazione del simbolo, si impone per la solenne essenzialità geometrica delle masse plastiche che può essere ricondotta a certi schemi dell’arte del Neo-Costruttivismo e persino del Futurismo. Brunetti mette in luce tutto questo con la sua profonda, connaturata presenza ed impegno artistico.
Luigi Lambertini così si esprime parlando delle opere di Brunetti: « In Brunetti, nella sua opera, esiste il senso del tempo, il desiderio di esprimere, o per essere più esatti, di esprimersi nel tempo senza prescindere in alcun modo dal proprio modo di essere. Il che comporta una presa di posizione e la conoscenza di una somma di fattori e non solo di uno di essi. Resta in altre parole anche lo spazio per la fantasticheria, per un racconto allusivo di sensazioni suggerite anche da immagini e ricordi accanto ad una partecipata trascrizione di un senso dell’effimero ed un naturale anelito al suo superamento ».
Lo scultore Francesco Brunetti espone in questi giorni alla galleria d’arte « Alexandra ».
Le sue opere, la sua complessa tematica, sono argomenti che pungono lo spettatore più di quanto quest’ultimo voglia ammettere. Esiste, infatti, nel Brunetti, una capacità di sintesi che attanaglia e che stupisce, per la facilità con cui esprime certe immagini. Le fantasticherie e le aeree sensazioni raccontate « corposamente » dalle sue strutture ferrose hanno un animo dinamico che trascende da costrutti tradizionalistici e che si evolve in tensioni sempre nuove.
Di capacità linguistiche …?
Duchamp è la coscienza colpevole di Picasso. E’ vero che la scultura moderna nasce, diciamo, con Brancusi; ma è Duchamp cha la fa esplodere, gettandola, da oltre mezzo secolo, in quella selva di ambiguità e contraddizioni di cui non si è ancora liberata. E’ a lui che il malagueňo deve il coraggio e l’invenzione di rompere certi schemi che inchiodavano la scultura su falsi piedistalli. Anche sotto questo aspetto la lezione di Picasso è esemplare: non fermatevi di fronte a niente – sembra voler dire agli artisti – tutto vi appartiene, impossessatevi di ciò che vi piace, è vostro.
Fra artisti qualificati non c’è mai plagio, semmai si può parlare di influssi che, per affinità di formazione e di ricerca, agiscono taluni più di altri su di noi. E’ risaputo che gli artisti di una generazione lavorano, quasi fossero in équipe, tutti protesi a dare un volto al proprio tempo, a comporre il profilo in cui un’epoca poi si riconosce.
Dico questo perché anche nell’opera di Francesco Brunetti si possono cogliere talune connotazioni linguistiche che fanno parte della scultura contemporanea. Brunetti non ha rotto con niente e con nessuno. Ha mantenuto in auge il ferro, che una insistente ricerca ha recuperato dai rottami; e soprattutto il bronzo, fino a ieri legato, insieme al marmo, solo ad una funerea e scontatissima monumentalità. A lui interessava penetrare, col rigore e l’armonia provenienti da un innato equilibrio, nel cuore della materia, sia quella che sia. Non sarà perciò un tradimento – una volta esauriti gli influssi del ferro e del bronzo – rivolgersi a materiali diversi. Infatti non desta meraviglia che negli ultimi lavori lo scultore bolognese accosti al ferro e al bronzo il legno e domani chissà, forse il marmo, il vetro, la plastica o il cemento.
Il materiale di recupero resta però alla base di ogni sua ricerca. E’ solo con gli interventi successivi che si nobilitano inconsuete architetture, dove i piani si intersecano, si stabiliscono agganci e i semplici dati originari – come bulloni, rivette, tondini, squarci e vecchie saldature – partecipano ad un nuovo gioco di rapporti, fino ad assumere ruoli imprevisti. La materia bruta riprende nelle mani dell’artista un discorso interrotto, a un registro diverso e ben più alto. Questi vecchi cassoni metallici bullonati, queste piastre d’acciaio logorate e lacerate da misteriose esplosioni, si stregano nella mani dell’artista e muovono stupore: mai prima d’ora, per esempio, ci capitò di volgere uno sguardo più tenero a un dado e al suo bullone, dove tutto è semplice, essenziale, convincente, come la scultura di Brunetti.
Sull’insieme il tempo sembra aver deposto un’antica presenza e la luce che ne esplora gli anfratti aggiunge nuova suggestione. Anzi, i lucenti aurei listelli di bronzo levigato, saldati accanto a logore pareti, accentuano lo scarto fra il vecchio e il nuovo, suggerendo rimbalzi e tensioni diverse.
C’è chi ha già detto qualcosa, in questo campo, può darsi; ma non vi sfugga, dell’artista bolognese, la misura, l’essenziale semplicità, il rifiuto di ogni sollecitazione letteraria e, soprattutto, il gesto che non sbaglia.
*ristampata su “d’Ars Agency” dicembre 1972 (pp. 146-147)
Le mostre d’arte che si susseguono alla galleria di piazza Roma hanno sempre un loro carattere inatteso e inconfondibile ma, forse, mai come quella in atto in questi giorni. Espone lo scultore Francesco Brunetti, bolognese.
Non si pensi a marmi e neppure a un discepolo od emulo del Canova. Anzi, al visitatore sprovveduto, a tutta prima, la rassegna evocherà il mistero di vecchi forzieri nascosti da ardimentosi pirati, entro gli anfratti marini o le custodie di preziosi codici ritrovati fra le rovine di vecchi monasteri. Poi, avvicinandosi alle opere, conquistato dalla loro essenza di bellezza e di mistero, ne scoprirà i valori veri.
“Età del bronzo, – dirà a se stesso – rapportata alla nostra epoca”. I lavori esposti hanno indubbiamente un loro fascino per il carattere stesso e la loro preziosità.
Vecchi cassoni bullonati, piastre logorate e lacerate da misteriose esplosioni, listelli d’ottone, saldature che non si sa se siano a congiuntura o per ornamento. Qualcosa di arcaico e di nuovo, ove anche i riflessi e le colorazioni verdastre delle ossidazioni hanno il proprio apporto.
Un lavoro accurato sulla materia, forse un ritorno ancestrale che riecheggia un lontanissimo passato. Ma le opere stagliano. Si pensa, inconsapevolmente, che entro un giardino, fra il verde e il gioco delle fronde, potrebbero assumere un risalto fantastico e fortemente suggestivo.
Chi si sarebbe aspettato questa mostra?
L’autore, mercoledì, presente all’inaugurazione, con semplicità mostrava le sue creazioni, muoveva sui perni quei suoi poderosi leggi o custodie di preziosi codici o di Bibbie, mostrava qualche suo lavoro in ferro, precedente a quelli in bronzo, quasi a voler spiegare il sorgere e concretarsi dell’ispirazione.
Opere, comunque, inattese, mirabili, ove il ferro ed il bronzo sono riportati in auge. La materia bruta riprende, nelle mani dell’artista, come fossero stregate, un discorso interrotto, onde bulloni, rivette, tondini, squarci, vecchie saldature hanno il loro risalto. Qualcuno direbbe pure: incanto…
Gli artisti presenti, ammirati quasi tacevano sogguardando le opere esposte, poi si entusiasmavano per quei bulloni ricavati essi pure dalla stessa cera, per quelle saldature di disturbo (ripeto le loro frasi), per quelle lacerazioni ottenute dallo scultore in un equilibrato gioco do rapporti.
Continua la prima personale a Milano dell’artista bolognese Francesco Brunetti, inaugurata con vivo successo martedì 18 gennaio. Le sculture di Brunetti, caratterizzate da un plasticismo forte e misurato, si svolgono nello spazio mediante la strutturazione ad ante cernierate e quindi movibili (dittici, trittici, polittici) oppure acquistano nelle soluzioni fisse e frontali la staticità solenne delle stèle. Sono state anche definite totem, trofei. Brunetti ama profondamente la materia, la sente in tutte le sue più specifiche e complesse declinazioni. Combina materiali di recupero (rottami di ferro) con masse di sua modellazione fuse in bronzo. Le patine poi conferiscono all’opera compiuta un quid sempre variato di sapor arcano accentuandone la intensa dialettica fra materia e forma. Tutti questi elementi sapientemente dosati e ordinati con temperamento sicuro portano le sculture ad una sintesi di nuovo e di saputo, messaggio esistenziale di non comune incanto. La luce (e quindi l’ombra) ha un ruolo di primaria importanza nell’interazione con l’opera. Ne deplora gli anfratti e aggiunge nuove suggestioni, come ha recentemente scritto il critico Giorgio Ruiggeri. Fra i lavori esposti vi è anche il pezzo premiato all’edizione 1972 del “Fiorino” di Firenze.
Quando nel 1970, alla sua prima personale, ripresi il discorso sull’opera che da tempo Brunett stava sviluppando, affermai che in fondo ci trovavamo di fronte a quelli che potevano essere definiti come dei reperti archeologici del ventesimo secolo. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Lo scultore bolognese tuttavia è rimasto fedele a questo suo viaggiare nel tempo, lo ha anzi accentuato. Nace così un “museo” particolare, popolato di “reperti” del tutto inventati e partanto ambigui, anzi, polivalenti; in essi il reale ha il valore dell’irreale, il presente quello del passato, e viceversa.
I “totem” dello scultore Francesco Brunertti, esposti in questi giorni alla galleria “Nove Colonne” di Trento, sono dei racconti plastici di squisita fattura. Brunetti sa rendere “leggero” il metallo, gli fa acquisire una levità aerea, un’impalpabilità tutta speciale con il ricondurre la materia, nel gioco complesso del suo strutturarsi in immagine – alla condizione di una pura creatività fantstica.
Ci verrebbe quasi d’osservare che le litografie di Brunetti, riunite in cartella a lato della mostra, sono meno fresche delle sculture, se non fosse per l’elaboratissima costruzione tonale.
I lavori plastici sono realizzazioni puramente astratte nelle quali l’invenzione ha modo di spiegarsi liberamente, fino alla dimensione lirica. Le allusioni “pittoriche” sono molteplici e significanti, partendo anche dal dimensionarsi delle opere, tanto che si potrebbe parlar di una scultura risolta plasticamente secondo valori che stanno alla base e sono comuni alla pittura astratta degli ultimi anni.
Il materiale prevalente è semopre il metallo, di fusione, con qualche incastro ligneo che lo impreziosisce. Si tratta di un mezzo piuttosto rude per l’espressione dei sogni e fantasie finissime da “paese dei fanciulli”, ma Brunetti è un mago che sa continuamente sostenere il tono della propria invenzione, con misura ed equilibrio.
Chi opera nel campo dell’arte, sia esso l’artista affermato e famoso o il giovane che muove i primi passi, non può non trasferire , in ciò che crea, una parte di se stesso, del mondo che lo circonda; dell’epoca e della società in cui vive: a mio modo di vedere, anzi, quando ciò non avvenga, l’opera si limita ad un semplice manufatto, destinato a una breve vita, e non vivere, oltre il tempo come accade per la vera opera d’arte.
Per l’artista, la materia e le tecniche che usa saranno sempre assecondate all’idea, il modo di esprimersi a ciò che vuole esprimere. Attraverso le sue opere l’artista fa un lungo racconto, spesso autobiografico, sempre comunque biografico della società e degli eventi di cui egli è partecipe: le varie sensazioni che riceve dal mondo che lo circonda, vengono filtrate attraverso la sua personalità ed espresse in opere che costituiscono i capitoli di questo racconto. E è qui che si inserisce, secondo me nel modo più significativo e vorrei dire nobilitante, il discorso delle tecniche dell’espressione e, alla fine, dei materiali stessi usati dall’artista. Ogni opera esprime infatti un “momento” particolare di questo suo rapporto con l’esterno: ebbene, l’uso di un certo materiale fra tanti altri a disposizione, l’adozione di una determinata tecnica e non di un’altra, significano evidentemente che “quel” materiale e “quella” tecnica divengono elementi essenziali ad esprimere compiutamente “quel” momento.
E’ evidente, a questo punto, che gli opposti di cui parlavo prima, l’espressione e i contenuti, la forma e la sostanza, divengono un tutt’uno, si amalgamano nelle mani e nelle finalità dell’artista. Il modo di esprimersi è nobilitato ed assurge al livello di ciò che vuole esprimere.
Elemento catalizzatore di questo processo è, naturalmente, l’uomo.
Così come le sensazioni esterne vengono “filtrate” attraverso la sua personalità per dar luogo ad un racconto che è appunto del tutto personale, allo stesso modo tecniche e materiali sono sottoposti a questo filtro e ne escono quasi mutati: la rigida procedura di una determinata tecnica, la fredda composizione chimica di un certo materiale, vengono utilizzate, plasmate, personalizzate dall’intervento dell’artista e assumono un’altra natura, ben più nobile, quella stessa del suo racconto visivo.
Io faccio scultura, e come chiunque operi in questo ramo dell’arte, i miei primi passi si sono “affondati” nella terra; nella creta si sono plasmate ed espresse le mie prime esperienze.
E’ nel 1968 che forma e contenuto, tecnica ed espressione, idea e materia s’incontrano e si fondono nel bronzo. Non sembri un gioco di parole, ma è affrontando in quell’anno la fusione in bronzo, che ho sentito ad un tratto di potere esprimere completamente ciò che volevo dire. Inizio infatti da allora un racconto della mia società, del nostro mondo, scritto nel bronzo, nelle sue lacerazioni, nei suoi bagliori, nella sua freddezza come nel colore di certe sue patine: sono sculture, che all’occhio della critica più attenta parlano, infatti, di “reperti del 2000”.
Nelle mie più recenti opere si sono affiancati al bronzo altri materiali, che comportano quindi, nella composizione della scultura, l’adozione di altre tecniche particolari. A proposito proprio di queste ultime opere, il critico Ruggeri ha detto.. “A lui interessava penetrare, col rigore e l’armonia provenienti da un innato equilibrio, nel cuore della materia, sia quella che sia. Non sarà perciò un tradimento – una volta esauriti gli influssi del ferro e del bronzo – rivolgersi a materiali diversi”.
Forse è vero, forse si avvicinano per me nuovi “momenti” che richiederanno l’uso di altri materiali, per essere vissuti ed espressi compiutamente: l’essenziale è che quei materiali, quali che siano, mi permettano di scrivere come io voglio nuovi capitoli del mio racconto.
Se sarà così lo avrò scritto per qualcuno: altrimenti resteranno solo bronzo, legno, materie acriliche.
Alla galleria del Leone di Tradate si è inaugurata sabato 12 gennaio una interessante mostra di scultura di Francesco Brunetti, nato nel 1941, operante a Bologna dove insegna al Liceo Artistico. Ha al suo attivo personali in molteplici gallerie italiane e nel 1973 è stato tra gli artisti segnalati per il catalogo Bolaffi in cui gli sono state dedicate due pagine nell’edizione speciale di quell’anno. Il critico veneziano Umbro Apollonio è il critico che lo ha segnalato.
Le opere di Brunetti non di rado sembrano antiche, forse perché egli usa in parte materiali di recupero. Vecchie tavole, corrose, annerite dalle intemperie, legate o unite mediante ghiere di ferro, cardini, cerniere; ed anche il ferro è come corroso dall’umidità, dal tempo, dalla salsedine. Tavole ed elementi metallici, così felicemente combinati, sembrano vissuti insieme da secoli.
E viti, bulloni, chiodi appaiono nel legno, a volte affiorando soltanto, come se in tempi andati avessero avuto una funzione di utilità ed avessero trattenuto qualcosa che ora non c’è più.
Queste sculture, quasi totem misteriosi e magici, hanno il fascino delle antiche mura, dei reperti archeologici; eppure si inseriscono perfettamente nella più viva attualità, in quanto umane testimonianze.
Dato caratteristico delle opere esposte in questa mostra, ma che troviamo anche in altre riprodotte in varie pubblicazioni dedicate a questo scultore, è che nella struttura di esse, quasi sempre regolare, diremmo rettangolare, o quadrata, vi è centralmente un elemento di rilievo, dolorosamente scomposto, nervoso, quasi una cancellatura o una necessità di genesi. E’ un elemento che ci ha colpito e che è determinante per l’interpretazione e la comprensione del linguaggio artistico di Brunetti.
Nel ciclo delle mutazioni fra l’essere e l’esistere lo strumento dell’opera appare conseguenzialmente carico del referente che sottende il gradiente dell’intendere e del fare, emblemizzando la natura del discente.
Tale caratterizzazione perviene dal molteplice al singolo e dall’unità al complesso, provocando un circuito coscienziale e nozionale fra il prescire e il codificare, dando all’operatore in arte quegli stimoli di fattività integranti la relazione che il sensibile annota nell’ambito della coscienza.
Per Brunetti la fattività, l’operare, si articola su istanze fortemente dialettiche: il tempo, supporto nozionale fattore portante carico del molteplice (esperienze, il vissuto) e l’esistenziale germinante, con le sue urgenti motivazioni.
Le due presenze assommanti lo spazio-tempo dell’esistere problemizzano, accentrando nella sua logica costruttiva contemplante una dimensione epocale, il meccanicismo e la crisi sfociante nella conflittualità e nell’utopia del consumismo delirante, cause ed effetto del trauma di un sub-assunto evolutivo dal quale perviene la sua ipotesi revisionistica, palesandone nell’opera la struttura sintattica con un suo paradigma linguistico.
Il pattern per Francesco Brunetti è la complessiva connotazione virtuale della proposizione critica alla cui tesi oppone una dialettica del possibile nella dinamica dei morfemi elementari, quasi neologismi della sua idiomatica (segmenti di trafilati carichi di liricità).
La ragione seminale dell’operante è identificabile nella presenza attiva della materia, nel limite sensoriale, e nel suo potenziale induttivo alla metamorfosi e duttilità all’idea che ne perviene visualizzando un reperto, ma soprattutto nel deputarla quale entità vissuta e inalienabile nella significanza autonoma e non reversibile, rendendo il corpo dell’opera una dimensione di tempo.
Da queste premesse ha inizio in Brunetti il progetto articolantesi in una sequenza operativa e consequenziale alle sollecitazioni che le elementarità elette (reperti) protagonizzeranno nei rapporti interagenti fra pause e interventi: originando, nelle strutture, scansioni – punti semantici – intersezioni e accidentalità. Le quali, nel globale, sono il motivante nell’elezione dell’operatore al dialogo fra forma portante, corpo e ipotesi della sua dialettica che, per sintesi alla sua tesi, germina elementarità vibranti quali elementi articolati (piattine di metallo) di un programma in voce di un divenire nell’opera stessa.
Le opere sono presenze cariche di implicazioni che si oggettualizzano in messaggi di un intendere disaminante l’essere e il suo esistere, palesando un’emblematica critica e attuale che Brunetti evidenzia nell’uso polimaterico e polisemantico.
Le ricerche di Brunetti rifuggono dalla perfezione formale: si propongono invece di ridare alle materie povere un significato, che le ammetta imperiosamente nella dignità dell’arte.
Bronzi consumati, ferri corrosi, frammenti di terrecotte policrome, grate che si spezzano, affreschi scheggiati, sullo sfondo di una fitta rete metallica, sono i poveri elementi raccolti per dar vita alle composizioni plastiche, riposte poi nelle teche in plexiglas. (Un elenco di quanto serve a Brunetti per costruire delle immagini articolate valide pur nella loro qualità di relitti diseredati, che assumono tuttavia caratteri e parvenze emblematiche, scoperte in una serie di rapporti che alludono alla fine delle cose, distrutte dal tempo).
Ma poi, all’improvviso, questi reperti di civiltà perdute si fissano in strutture inventate di un fascino antico. Diventano reperti ricomposti dalla fantasia dell’artista, che li raccoglie e organizza, con una curiosa fedeltà all’estetica dell’informale, allo scopo di risolvere i problemi più ardui, nati appunto dalla difficoltà di tradurli in termini leggibili.
Brunetti con indomita costanza riesce a dare un nuovo significato, nell’ambito di una concezione unitaria, ai momenti più felici di questa esplorazione del passato, ai momenti rappresentati dai reperti 2021, 2033, 2038, 2035, 2039, nei quali la metamorfosi delle forme si determina addirittura con caratteri magici. I volumi si dissolvono nelle fratture, simili a macchie chiaroscurali, che appaiono rotte o forate e spesso delimitate dalle teste dei chiodi per lamiere, diventati casuali ornamenti decorativi.
Il mondo plastico evocato da Brunetti appartiene al dominio meraviglioso dell’irrealtà, accentuata dalle teche trasparenti, in cui i reperti vengono raccolti, come oggetti preziosi dentro uno spazio astratto, visti in una prospettiva sorprendente, in una trasposizione che li allontana in un tempo remoto, come simboli salvati di civiltà perdute.
E’ difficile ricondurre queste sculture a un ‘presente’ , in cui fatalmente anche le « evocazioni » si collocano, è difficile risolvere la contraddizione, che tuttavia anima di una strana vitalità queste bizzarre fantasie plastiche. Brunetti opera davvero nel campo delle operazioni magiche, che trasformano i relitti in creazioni vitali. E le tecniche usate rendono possibile una specie di perenne incantesimo materico, nella conquista di uno spazio poetico, in cui domina, intatto, il mistero di queste immagini al di là del tempo.
L’esempio di un modo creativo genera spesso un orientamento di durata variabile a seconda della sua carica propulsiva e della sua pertinenza storica.
Anche nel caso che esso resti limitato però ad un momento breve della storia e non dia luogo ad una vera e propria tendenza, il suo intervento potrà farsi sentire ugualmente nell’evolversi formale successivo. Qualsiasi fenomeno infatti non può fare a meno di elargire qualche arricchimento ed altresì valere da concausa alla serie dei fatti: avviene perciò, anzi, che la linea, alla fine, si trovi talora segnata da nodi, non scorra cioè senza intoppi o deviazioni, sia priva di intromissioni. Per forte e consapevole che sia la determinazione del singolo, non meno che l’intrinseca direttrice del processo storico, la tensione creativa stessa vive un’inquietudine costante, insidiata com’è da resistenze convenzionali e da apporti culturali. Il travaglio per sottrarsi a simili inevitabili violenze e liberare così quel nucleo destinato ad agire per la fissazione di una forma più stabile di altre, non è facilmente valicabile. Del resto l’armonia si oggettiva molto raramente in un’assenza di contrasti, la validità di un organismo dovendosi ritrovare piuttosto nel ritmo capace di concertare anche elementi in sé negativi. Senza contare che, a fronte delle certezze assolute, quelle che segnano infine le svolte fondamentali del percorso storico, esiste una funzione precisa di altre formulazioni che vantano il merito di avvertire il traguardo cui tenderebbe il mondo dello spirito, ma credono di non doverlo distaccare completamente dagli ordini precedenti.
La questione è complicata oltre che intricata, e perciò difficile da risolvere in modo obiettivo e soddisfacente. Se da parte mia sento di inclinare per le decisioni drastiche, non posso fare a meno di rilevare come le infiltrazioni siano in genere costanti ed inevitabili, ed è un bene che ciò avvenga, nel senso che evita la ripetitività accademica cui è tanto facile indulgere: sarà sempre meglio di quest’ultima una combinazione che cerchi accordi con altre audacie o ricerche in via di sperimentazione. La lettura si esercita così a vari livelli e trova diverse complicità, perché non vi fanno spicco soltanto affioramenti o congiunzioni o rispondenze di carattere sintattico predeterminati in una dimensione strutturale propria, ma vi si inseriscono temi e rapporti di tutt’altra origine ispirativa e di cui s’è avuto un patteggiamento appropriativo.
Quanto sopra andavo ripensando mentre riguardavo le sculture di Brunetti e ne ammiravo prima d’altro la coerenza mantenuta nel corso della sua vicenda, che non registra per l’appunto, scarti irritanti o strepitosi, ma rimane fedele a certi contrappunti di fondo e ricerca quindi una tensione emotiva che oscilla tra una base di provenienza informale ed il recupero autoritario di una struttura rigorosa. Ne viene un assemblage dove la sollecitazione della materia contende il predominio al rigore, pur mai scartato, della concretezza razionale. Soppressi alfine i giochi e le competizioni di impronta mimetica, le nuove ipotesi oppositive non potevano che fondarsi su uno schema d’ordine logico. Se non che questi combattevano qualsiasi circostanza esistenziale per la conquista di un assoluto, e se da un lato il purismo si affermava con estremo rigore in Mondrian o Vantongerloo o Max Bill, dall’altro si proponeva l’itinerario svariato e metonimico di Schwitters.
Ora è chiaro che Brunetti si muove a suo agio in quest’ultimo ambito d’azione. Se ne potrà avere conferma nel fatto che egli, proprio al pari di Schwitters, dedito a comporre i suoi collages polimaterici entro una cornice, chiude i suoi rilievi bronzei o comunque metallici in teche di plexiglas, così da impreziosirne la sostanza dandovi un’apparenza da antica icone. Ma il plexiglas non raccoglie e stabilizza, quasi in una sorta di vetrina votiva, frammenti d’oggetto oppure allinea in serie uno stesso oggetto in una iterazione vibrante come aveva fatto Arman. No, Brunetti coglie di buon grado e senza remore tutto ciò che gli viene offerto dalle fonti e dagli stimoli che risalgono al mondo naturale, materiale, culturale che gli sta intorno e che egli dimostra di non ignorare né di trascurare affatto.
Si potrebbe pensare anche che Brunetti voglia ribadire l’idea, spesso avanzata, ed anche autorevolmente sostenuta, che l’arte sia una forma di linguaggio: l’arte infatti si realizzerebbe attraverso un intreccio di elementi di provenienza disparate. Ora è bensì vero che l’arte è un modo di comunicazione, ma prima ancora è un modo di conoscenza, perché qualsiasi atto creativo accresce il patrimonio dello spirito su cui indagare.
Tralasciando in questa sede di intervenire sulla dibattuta questione se il fenomeno artistico possa ricadere o meno entro l’area pertinente alla signoria del linguaggio, gioverà far rilevare che il lavoro di Brunetti non tralascia di prestare scrupolosa attenzione alle risorse stilistiche più diverse: evita ogni disciolta aleatorietà, controlla le colorazioni dei materiali, equilibria masse e reticoli, vigila sul peso dei singoli frammenti formali in rapporto al complesso generale.
Si viene ad ottenere così un organismo dinamico di sapiente perizia, dove l’intersecarsi di particolari materici di prima mano e di sottofondi culturali di valore costruttivo scandisce un insieme sintattico che somiglia molto ad un singolare intarsio.
Le relazioni e le dipendenze sono, vale a dire, palesi, non cedono a compromessi fuori da quanto il contesto richiede, preferiscono i grovigli e le ridondanze, persino le sovrapposizioni, piuttosto di rimettersi a operazioni elusive. In Brunetti tutto è palese, scoperto, non esistono infingimenti, ed è probabile che egli stesso pretenda proprio che i rimandi siano agevolmente individuabili: alla fin fine ricompone con dati estratti da esplorazioni diverse un testo libero, disponibile, articolato, con propri requisiti sintattici.
Si ha allora di fronte un recupero di esperienze in via di scadenza, destinate oramai a scomparire, e di cui invece si prolunga l’energia e con alcune parti delle quali si costruisce, sul filo della traduzione soggettiva, una proposta il cui ruolo va esaminato con particolare interesse, proprio perché questa di Brunetti nasce in ultima analisi dall’intenzione di superare ogni tipo di ritualizzazione ed aspira ad un massimo di libertà emotiva servendosi di prestiti acquisiti ed acquisibili. Se per certi versi può apparire un conservatore, e quindi scarsamente audace, per altri invece mostra notevole ardire nell’impegnarsi consapevolmente su interventi che ripropongono in forma variata situazioni date come esaurite e capaci invece di durare in nuovi assetti. Da ciò, anzi, si deduce che l’autore crede fermamente nella permanenza di un valore culturale utilizzabile anche a distanza di tempo dalla sua fioritura, e che appena l’evolversi successivo della vicenda storica potrà stabilire meglio dove si trovi di fatto la ragione: se esistono o meno, cioè, momenti culturali ripetibili. Brunetti frattanto con i suoi oggetti plastici ha il merito non secondario di indurre a riflettete su questi interrogativi.
Caro Francesco,
ho saputo che, dopo lungo meditato silenzio, ti ripresenti al giudizio del pubblico.
Ne sono felice e desidero offrirti, con sincera amicizia, queste righe con l’augurio – che è una certezza – che tutto vada secondo il tuo desiderio. Giovanna
Un vero artista non può rimanere scisso dalle problematiche del proprio tempo e del proprio sistema di comunicazione.
Consapevole dei comportamenti operativi europei ed extraeuropei del momento e delle innumeri possibilità di sfruttamento materico, Francesco Brunetti, dopo aver rinunciato tout-court ai procedimenti tradizionali, si è inserito nel mondo della scultura con una morfologia, con un impegno ideologico ed un recupero della poetica che hanno del sorprendente.
E’ indubbio che la sua creazione nasce da una concitazione di tipo romantico. La sua arte infatti è tutta basata sulla forza dell’immaginazione.
Lamine, schegge, rottami, residui di lavorazione, sotto la pressione della sua mano, con una tecnica sempre raffinata, che sfrutta sagome, materiali ed effetti pittorici (con variazioni di intensità luminose spesso decisamente cromatiche) sono diventati oggetti, hanno dato vita a strutture affascinanti, a « relitti di naufragi prodigiosamente ricreati nella fredda società del consumo ».
Ferrami, bronzi, oggetti corrosi, rimessi insieme quasi con religione, non solo sono stati recuperati per un uso diverso, con lessico attuale, ma sono stati rivestiti di un paludamentio poetico e del tutto personale.
Sono nate così le sue « suggestioni fantastiche » che rivelano un fondo di curiosità acuta e per la riproposta di mezzi e modi linguistici vetusti, in un gioco aperto, di natura squisitamente culturale.
È una risposta delicata, fatta di nostalgie per un passato perduto ed enormemente amato (di sicura etimologia mediterranea), è una dichiarazione di fede nell’umanità ed è, infine, un atto di creatività sapiente e capriccioso insieme (« Quando l’uomo cessa di creare, cessa di vivere » – dice Lewis Mumford).
Così, in silloge armoniosa, intessendo sottilmente storia e memoria, si sono allineati nel tempo, i suoi reperti: archétipi arcaici di un arcaismo primigenio, recupero poetico–artigianale ad alto livello, strutture iconiche e materiche curiosamente legate alle istanze del nostro tempo.
Perché qui sta la forza di Francesco Brunetti. Nell’aver saputo dimostrare con chiarezza estrema come la storicità della scultura non sia pura utopia.
Convinti come siamo – per dirla con Henry Moore – che l’arte sia « un’attività universale e perenne senza distacchi tra il passato e il presente », dobbiamo dargliene atto.
Lo scultore bolognese presenta nella Galleria Due Torri una serie di « reperti » come giustamente li definisce Giuseppe Marchiori, estensore del catalogo insieme ad Umbro Apollonio, che segnano forse un momento di riflessione da parte di Brunetti sulle fonti alle quali la sua attività può ancora attingere. Frammenti di utensili, di armi, di oggetti d’uso quotidiano appartenenti ad antiche civiltà vengono reinventati e ricomposti in teche di plexiglas che suggeriscono una lettura filologica, da museo, ma al tempo stesso vietano quel contatto diretto e concreto che resta indispensabile per appropriarsi virtualmente della scultura nel senso più completo. La teca diventa uno schermo fra l’opera e il fruitore e la proprietà della scultura di essere tangibile scompare.
Brunetti propone dunque una rivisitazione, che per lui ha appunto carattere di riflessione delle forme corrose, arrugginite, consunte e frammentarie (perciò capaci di rinnovate suggestioni formali) di reperti di antiche civiltà. Più che di presenza le sue sculture assumono un carattere di evocazione, come se fosse ormai impossibile riconoscere l’uso o la finalità degli oggetti ritrovati. La riproposta che lo scultore avanza è quella di indugiare sulla bellezza formale, sul fascino della materia alterata, sulla possibilità di scoprire – oltre la inevitabile tentazione d’integrare il reperto fino alla sua facies originaria – nuovi aspetti che l’erosione del tempo ha saputo imprimere all’oggetto. Il richiamo dell’estetica informale è forte (l’intervento cromatico sulla materia, la trama metallica che sostiene i reperti, la trasparenza fredda della teca sembrano complicare pittoricamente il lavoro dello scultore) ma solo il lavoro « finito » rende ragione degli intenti dello scultore.
I reperti di Brunetti, apparizioni enigmatiche e improvvise ai nostri occhi, sono invece frutto di uno scrupoloso lavoro di rilettura delle fonti antiche più congeniali alla sua opera. Quanto oggi egli ci mostra è frutto di una fantastica « vis » creativa ma anche il risultato di una precisa attenzione ai manufatti dell’arte antica e alla sua storia.
I ferri vecchi sono sempre stati materia prima di Brunetti. Sapeva lisciarli, però, e organizzarli dando loro una forma in certi lati lucida e inquadrandoli fra ipotetiche cornici. Tanto che quell’accostamento calibrato di listelli squadrati, poveri residui di fonderia, aveva assunto un valore emblematico, una sorta di sigla che fra cento diverse sculture rendeva subito riconoscibile quella di Brunetti. Successivamente la tematica dello scultore bolognese si è allargata. Accanto ai listelli sagomati hanno preso posto altri objets trouvés: antichi bronzi consumatissimi, frammenti di antiche ceramiche policrome, rottami di maglie metalliche su cui l’artista componeva suggestivi assemblage, senza per altro mai dimenticare, magari posto ad un lato come la firma, il ceppo originario delle stanghette metalliche. Il verderame pennellato con arte, certa bulloneria gratuita ma che entrava nel gioco della composizione, taluni accostamenti cromatici di materie diverse, sottolineano la sensibilità pittorica dello scultore bolognese. La poetica di Brunetti nasce forse soprattutto da un contrasto: la rude e scabra materia adoperata e la raffinatezza del gusto nell’elaborarla, pur apparentemente rifuggendo dalla perfezione formale. Marchiori chiama “reperti” i suoi lavori, quasi simboli di civiltà perdute custoditi in teche trasparenti. E’ ancora una volta l’incanto della materia che l’artista evince per magia e tensione poetica.
Molte volte si sono visti oggetti inscatolati da parallelepipedi di plexiglas le cui firme sono di tanti (chi non ricorda Arman?), ma mi pare che la cura, l’amore, direi quasi la religiosità con la quale Francesco Brunetti chiude, anzi, preserva le sue sculture, siano da teca, da bacheca, da incubatrice, da altra aria, altra atmosfera, dove il contatto col « nostro » umano potrebbe far crollare tutto, contaminare la materia e incenerirla.
Questa aria mistica segue tutti i racconti di queste opere (sculture – collages) da quelle di bronzo a quelle di marmo, di ottone, di terracotta, di ferro, di plastica, di pietra, di carta, di legno. Si, perché tutto serve al racconto di questo artista che prova il massimo dell’emozione quando può lavorare su una materia con una « sua »storia che si perde nel tempo e nella natura, e quindi niente di più eccitante che una vecchia lastra già usata, una rete, una placca, un chiodo, una cerniera, un antico marmo, un foglio di incunabolo, un niente: un tutto.
L’artigiano e l’artista si fondono magicamente, creano questi idoli-reperti che stranamente ci portano in avanti più che nel passato. Ecco, credo sia qui il punto fascinoso di Brunetti: in un’alchimia di tempo-spazio-materia, ci culla dall’ieri al domani fra ciò che è stato e ciò che sarà di noi, e queste teche pare ci portino messaggi antichi e futuri, reperti dell’avvenire, di un mondo dove amore e odio, costruzione e distruzione sono e saranno.
Particolarmente in questa mostra la scultura centrale, quella attorno alla quale si svolge l’amorosa attenzione del noto fotgrafo Enrico Giovenzana, è una stele di granito rosso di Assuan con fantastiche scritture, più propriamente impronte di chissà quale linguaggio, dimenticate e tramandate fra iniziati, spezzata e ricostruita con la sensazione della fragilità della forza e viceversa, con lo stupore del sacro profanato e ristabilito al giusto posto, e ora finalmente intoccabile e inviolabile.
Anche se le dita cercano il contatto, se vorrebbero seguire col tatto i segni, gli incavi, i rotondi, il freddo, e l’aspro e il liscio della materia, si rimane rispettosi davanti a pensare. E timorosi anche, come se, ipoteticamente entrando nella teca, la stele ti abbracciasse, ti coinvolgesse, come novella vergine di Norimberga, e ti annientasse.
Seguendo poi l’itinerario delle foto nell’interpretazione, o meglio nella lettura che l’artista e il fotografo ci danno, si può constatare come lo stesso oggetto, cioè la scultura, si propone allo sguardo sempre diversa e sempre lei. Col mutare della luce del giorno pare cambi vestito e linguaggio. Rifrangenze di luce, rifrazioni di colori, visioni speculari, trasparenze misteriose, sono le « qualità » della magia nata da questa colonna di granito.
E quel tondo di ottone sbalzato a mano in cima alla stessa come un sole, una divinità, un occhio di Polifemo dalle ciglia di ferro, sembra uno specchio del sentire e del vedere suo e nostro.
La sequenza fotografica della apparizione della stele e della sua partenza per altri tempi, per altri luoghi, con una tensione crescente di vibrazioni in costante aumento, di raggi di luce, di potenza, di carica vitale, ci dà l’esatta sensazione di progressiva volontà di moto, di andare oltre il possibile e l’immaginabile.
Le foto notturne trattano un altro aspetto della situazione parallela e convergente dell’opera e del suo artefice. Riguardano infatti la visitazione da parte dell’artista, dell’artigiano, del creatore, del padre, e la conseguente riscoperta dell’inconscio essere realizzatosi oltre la sua stessa volontà e capacità, come in una vita propria, autentica, autonoma. E così rinascono i gesti che prima erano stati armati di scalpelli e ora di luce in una ripetizione incorporea di un dialogo già avvenuto. O che verrà?
Il calendario della nuova galleria bolognese “Nove Colonne” ha fatto incontrare i recenti “assemblages” di Francesco Brunetti. Nel centro della sala una stele di granito rosso, religiosamente custodita in un parallelepipedo di plexiglas, intorno i pochi e suggestivi reperti che lo scultore concittadino (Brunetti è nato, lavora a Bologna, dove insegna al Liceo Artistico) coinvolge negli spazi di intoccabili, trasparenti involucri. Oggetti ferrosi, pietre, lastre di rame ricomposte con sapienza esecutiva, antiche carte, terrecotte rinate come simboli, come arcani elementi di magia. Qualsiasi materiale può servire a Brinetti per i suoi fantasiosi racconti, qualsiasi frammento può nobilitarsi, acquistare un respiro armonioso, suggestivo. Alla scultura centrale di Brunetti si è accompagnata, nella stessa sede l’interpretazione fotografica di Enrico Giovenzana. “Sequenza fotografica (ha scritto Didi Parisano) con una tensione crescente di vibrazioni, di raggi di luce, di carica vitale, un’esatta sensazione di progressiva volontà di moto”.
La galleria, per la sua particolare conformazione, si presta ad ospitare un’opera di uno scultore accompagnata o dai disegni preparatori dell’opera esposta oppure, come in questo caso, corredate da una bella serie di fotografie che illustrano nello spazio naturale il lavoro dello scultore.
Francesco Brunetti è un nome caro non solo ai bolognesi. Sono anni che l’artista – mostra dopo mostra – va articolando un linguaggio plastico che fin dalle origini apparve lucido e penetrante. Più che la forma, per altro scrupolosamente calibrata, è la materia la protagonista di fondo di tutti i suoi lavori. Il rapporto con la materia – sia bronzo, rame, rete, un vecchio marmo, placche, chiodi, terrecotte, legni stagionati o che altro sia – l’artista chiede alla materia tutta la sua storia, passato, presente e futuro.
Se la materia in sé e per sé primeggia, il tempo che la condiziona non è da meno. Last but not least lo spazio in cui la materia prende forma. Se si tengono presenti queste tre componenti fondamentali della sua poetica, il linguaggio dell’artista bolognese si fa limpido, batte a segno e raggiunge, per vie diverse, la regione del cuore. Pregevolissime le fotografie di Enrico Giovenzana che aggiungono all’opera di Brunetti un alito maggiore di fantastico, di irreale, facendo apparire i suoi lavori come cimeli preziosi recuperati dalla memoria. Seguendo poi l’itinerario delle foto nell’interpretazione, o meglio nella lettura che l’artista e il fotografo ci danno, si può constatare – nota giustamente in catalogo Didi Parisano – come lo stesso oggetto, cioè la scultura, si propone allo sguardo sempre diversa e pur sempre lei: col mutare della luce del giorno pare cambi vestito e linguaggio.
Alla «Ca’ d’Oro», meritatamente considerata la galleria più qualificata per la rigorosa selezione che fa degli espositori accogliendo solo quelli che contribuiscono « ad augendum prestigium »dell’arte e non « ad deprimendi » e che consente, uscendo, di goder dell’incanto della paradisiaca scalinata di Trinità dei Monti, ha proposto al pubblico le opere di Francesco Brunetti con l’avallo di catalogo di critici che non adeguano il loro giudizio alla misura del compenso ma al loro coscienzioso convincimento, dopo il rigoroso attento esame diretto di dette opere e quindi della loro validità nel tempo.
Finora la fama e il prestigio di Francesco Brunetti erano stati affidati ad opere scultoree inserite nella tradizione e quindi fedeli ai canoni fondamentali e insopprimibili della scultura formale del contrappunto volume-spazio, dell’articolazione ritmica, onde la comunicatività negata alle opere prodotte nelle correnti aberranti sovvertitrici di norme stabilizzate dal tempo che è il migliore degli avalli. A fronte di opere da considerarsi « classiche » Francesco Brunetti si presenta in forma nuovissima che sorprende per l’originalità. Non vi è stato finora e non vi è, che io sappia, altro artista di sicuro ingegno e di straordinaria versatilità che sinergicamente amalgamando intelligenza e cultura, profondamente stratificata e una fertile immaginazione che anela a spazi vastissimi, abbia creato una sua civiltà al pari di quella egizia, assiro-babilonese, mesopotamica, etrusca, e le testimonianze lasciate dopo l’usura del tempo nei fori, nei templi, negli stadi, egli le ha accolte nella memoria e ricorrendo poi ad una vera operazione magica, facendo ricorso al magistero tecnico dell’artigiano e dell’artista, ha dato ad esse consistenza plastica e quindi tattile e sono opere che formano oggetto di meravigliosa mostra alla « Ca’ d’Oro »: vi si trovano frammenti di colonne tortili arricchite di corolle floreali, pietre pregiate che hanno apporti di vegetazione e rosse bacche, scudi di guerra, legature in argento con gemme, quali vediamo a San gallo nei codici della millenaria biblioteca abbaziale, strutture di caminetti, frammenti di mosaici: quanto di più prezioso avrebbe rispettato l’usura del tempo ha formato così retaggio di incomparabile valore e bellezza, e il raffinato gusto del Brunetti sa così proporci i tesori della civiltà che deve prendere nome proprio da Brunetti. Nessun artista oggi aveva saputo proporre in una mostra il frutto del suo genio creativo aperto a tutti gli orizzonti per coglierne gli aspetti della vita universale. Francesco Brunetti ha dato la misura piena della sua vocazione di artista tesa a dare gioia a quanti hanno occhi per ben vedere e spirito per godere.
Benvenuto a tutti presenti,
Benvenuti all’appuntamento con la scultura di Francesco Brunetti, un appuntamento fortemente voluto da alcuni amici riccionesi, che da tempo e con entusiasmo si sono dedicati a preparare questo avvenimento, in omaggio all’amico scultore, ma soprattutto in omaggio all’amore per l’arte.
Mancherei ad un esplicito desiderio dell’artista se adesso, prima di inaugurare la mostra, non rivolgessi il più vivo e sincero suo ringraziamento ai cari amici Cianini, che sono i primi, veri artefici di questo avvenimento.
Un altro particolare, caloroso ringraziamento a chi ci ospita in questa stupenda cornice del Grand Hotel Des Bains, nella persona della signora Salsiccia e del Direttore, signor Bonini, la cui disponibilità e signorilità hanno reso possibile questo incontro con l’artista.
Va detto subito che, se non eccezionale, certo si tratta di evento non frequente, perché Brunetti è artista piuttosto schivo, quasi geloso delle sue opere, che ama esporre sempre più di rado e a pubblico sempre selezionato: basti pensare che l’ultima sua mostra ebbe per sede la famosa Galleria Ca’ d’Oro in via Condotti a Roma, inaugurata dal Presidente Amintore Fanfani.
Ed ora, due parole di introduzione alla mostra: chiunque si accinge, come noi questa sera, ad incontrare le opere di Francesco Brunetti, siano esse sculture o preziosi gioielli, deve prepararsi a compiere un fantastico viaggio attraverso spazi e tempi che attingono alle grandi civiltà dell’uomo.
Tutti i critici d’arte, e sono tanti, e sono tra i più famosi, da Giuseppe Marchiori ad Umbro Apollonio, da Lambertini a Baccilieri, da Marsan a Finizio, da Ruggeri a Marotta e tanti altri, tutti i critici militanti nell’arte che hanno parlato dell’opera di Brunetti hanno riconosciuto in essa due grandi momenti ispiratori.
Il primo, che ha contrassegnato gli inizi degli anni ’70 e larga parte della sua carriera ha come elemento caratterizzante l’invenzione di archeologie proiettate nel futuro.
Uscendo dal linguaggio spesso enigmatico dei critici, questo vuol dire che molte sue sculture rappresentano oggi la realtà del domani, cioè i reperti che tra molti secoli gli uomini troveranno come segni della nostra epoca, della nostra civiltà tecnologica.
Racchiuse dentro a teche trasparenti, proprio come si conviene ad un pezzo archeologico, queste sculture hanno contrassegnato quel periodo dell’opera di Brunetti che la critica ha definito “reperti archeologici del 2000”.
Un secondo motivo ispiratore, non meno ricco e importante del primo, contrassegna poi tutta l’opera di Brunetti dagli anni ’80 in poi: ed è un richiamo ad altre stupende civiltà, un singolare e personalissimo ritorno ad antiche origini.
Nelle sculture di questo periodo il bronzo e il ferro cedono spesso il passo a superfici dorate e lavorate, cadenzate dalla policromia di pietre dure. Non a caso lo stesso autore e la critica collocheranno queste opere in un periodo detto “El Dorado” e dei “Trionfi”.
Il nostro incontro di questa sera sarà soprattutto con opere di questo momento della vita artistica di Francesco Brunetti, e non stupisce allora che accanto a preziose sculture, sempre racchiuse in teche trasparenti, ci troveremo di fronte anche a gioielli che io già qui oso definire di rara bellezza.
Sono pochi esemplari unici, tutti interamente realizzati a mano dall’artista, con la tecnica che fu cara a Benvenuto Cellini; ora lavorato a sbalzo e cesellato, esaltato dalle incastonature a notte di pietre preziose: rubini, smeraldi, zaffiri e così via.
Vorrei parlarvi ancora di Francesco Brunetti e di ciò che la sua opera ha significato nella storia dell’arte contemporanea, ma a questo sopperirà certamente meglio il catalogo messo a vostra disposizione, che vi dirà dei numerosi ed importanti premi vinti da questo scultore, di quanti critici d’arte si sono interessati alla sua opera, e di quali grandi progetti sia autore Brunetti: primo fra tutti quello del concorso vinto per la realizzazione della Porta Santa per la Basilica di san Paolo fuori le mura in Roma.
Io, a questo punto, preferisco e anche voi lo preferite, che a parlarvi di Francesco Brunetti siano le sculture ed i suoi gioielli-sculture.
Quando vi troverete di fronte ad essi, comprenderete appieno perché il critico d’arte esigente come Marchiori abbia parlato di “perenne incantesimo materico”, Marotta di “emozioni fantastiche” ed Adriano Baccilieri di “una fantastica vis creativa”.
Nell’augurarVi allora buon viaggio in questo magico mondo dell’artista, consentitemi ancora solo una parola, proprio a nome di Brunetti: egli mi incarica di esprimere a voi tutti il più sentito ringraziamento, per aver voluto onorare con la vostra presenza questo incontro.
GRAZIE
E’ vero, sono venuta qui per commemorare Francesco Brunetti soprattutto dal punto di vista critico-artistico. Ma permettete che per prima cosa lo ricordi come uomo, come amico, come collega carissimo.
Io entrai al Liceo Artistico nel 1970, e subito capii che in lui avrei avuto un grande amico, un collega che mi sarebbe stato vicino nei momenti ben tragici che vivemmo in quegli anni al Liceo Artistico. Il ’68 era passato da poco, ma le frange erano dure a staccarsi, ci trovavamo di fronte a ragazzi cupi, tragicamente compresi che qualche cosa avrebbe dovuto cambiare, e che noi, insegnanti, chiedevamo questo cambiamento. Noi lottammo, lottammo insieme con loro. Brunetti ed io avevamo in comune una cosa, anzi due: l’amore per la materia e l’amore per i ragazzi. Queste due cose fecero sì che marciassimo sempre di comune accordo; non sto a dire quello che uscì dal ’68, perché neanche oggi ne sappiamo realmente né le cause né il finale di queste cose tremende che successero. Diciamo che riuscimmo a fare i plotoncini di ragazzi che ci seguivano e, dando loro qualche cosa ed ottenendo da loro altre cose, siamo riusciti non solo a sopravvivere ma a portare avanti dei programmi, non solo, ma a creare degli uomini, perché questo in fondo è il messaggio di un insegnante: creare gli uomini.
Quindi io ricordo Francesco, Checco, se permettete, perché per noi era Checco, lo ricordo nelle commissioni, lo ricordo agli esami di maturità, lo ricordo sempre con quel sorriso e quegli occhi dolcissimi, sempre pronto a dare ragione, sempre pronto a rompere sul nascere gli equivoci, sempre pronto ad essere sé stesso in favore degli altri. Questo lo devo dire, perché al di là dell’artista c’è l’uomo ed in lui uomo e artista, come vedremo, diventano un tutt’uno ad un certo momento.
Quindi, quando lasciai il Liceo Artistico non lo vidi più, ma una mostra, quella del ’91 alla Mercanzia me lo portò davanti; ero voluta andare, ero desiderosa di vedere non solo l’evolversi del suo lavoro, che conoscevo molto bene, ma soprattutto l’evolversi della sua persona. Purtroppo mi trovai di fronte ad un uomo che era già stato provato nella vita dal male, trovai una persona completamente diversa nel fisico, non certo nel morale né negli ideali che lui aveva sempre altissimi.
Stupiva in lui quel senso grandissimo di fede nel Dio supremo, ma fede anche in sé stesso, nei propri mezzi e nello stesso tempo quella modestia che non l’ha mai messo di fronte alle cose così d’acchito, accettava anche i pensieri degli altri, accettava anche i consigli degli altri, quando questi consigli trovava giusti.
Come artista direi che è stato uno dei più grandi artisti che abbia avuto questa regione, che abbia avuto l’Italia, unico nel suo genere.
Ma pensate, mentre tutti pensavano a costruire, lui pensava a demolire per ricostruire, per demolire di nuovo.
Questo è il senso recondito delle sue opere, delle prime opere. Lui stesso diceva “E’ come se le ritrovassi nel marmo, è come se le ritrovassi in fondo alla terra, e le rivesto, e le rimetto in sesto, come oggetti preziosi”. E dell’orefice aveva molto, infatti anche nei gioielli era bravissimo, era unico, e li rivestiva realmente per mezzo del retino, per mezzo delle pietre dure, in maniera come se realmente li avesse salvati dall’oblio, dall’oblio eterno.
Guardate, non è da tutti avere un pensiero così profondo per la cultura dell’ieri, renderla attuale e proporla per il futuro. Qui ci sono tutti gli stadi dell’arte: e ci vuole una cultura molto profonda, una cultura del passato (ma passato studiato, realmente); è vero nelle sue teche, che io chiamo, troviamo ricordi dell’arte egizia, troviamo ricordi dell’isola di Creta, troviamo ricordi del Medio Evo, prima ancora, dell’arte paleocristiana, l’abbiamo poi visto bene nel suo bozzetto della Porta Santa di san Paolo.
Io ho trovato perfino ad Aquisgrana, dove sono stata l’anno scorso, nei gioielli, dei ricordi di Francesco. Quindi una cultura grandissima, una cultura profonda, che non a tutti è data di avere.
Ed era uomo del suo tempo. Questo io vorrei che capiste. Lui aveva capito che il novecento sarebbe passato alla storia come l’età dell’astratto (è inutile dirlo) e figurativo non lo è mai stato, rare sono le cose che lui rende figurative, non so, la “Sacra Famiglia di Nazaret” o quei Cristi in croce ma anche quelli li riveste, li pone in un’epoca ben determinata o in un’epoca passata, adoperando poi le tecniche del momento. E allora essere un astratto è una cosa molto difficile. Voi pensate che l’astratto non è capito da tutti, ma quello suo deve essere capito perché è un astratto che nasce da una posizione molto lontana di cose che sono state preziose, e che gli uomini hanno salvato, o perlomeno nella sua mente c’è questa idea del salvamento dell’opera: opera antica che diventa opera moderna che sarà opera futura. E’ il legame dell’arte; ricordatevi sempre che Moore diceva “L’arte è un’attività universale e perenne, senza distacchi tra il passato e il futuro” (e il presente, dico io).
Su questa strada si è mosso Francesco. Guardate, ha due meriti enormi, secondo me, e parlo delle prime sue opere che voi vedete nelle teche, quel chiuderle nelle teche, nel plexiglas già dice dell’oggetto prezioso: l’una è l’aver richiamata la cultura dei tempi antichi e di averla portata alla conoscenza; secondo, con un gioco (perché è un gioco in fondo il suo, quel gioco che lo porta a rompere e a rifare e riproporre) di aver capito che il tempo moderno non può che essere legato all’antico, e poi (e questo è il nostro augurio) che queste diventino veramente futuro.
Guardate che non c’è nessuno che ha fatto un’opera del genere. Io rimasi veramente a bocca aperta, con tutto che sono critico, con tutto che di cose ne avevo viste tante, quando lui mi pose davanti queste sue opere, perché sono opere che hanno già la preziosità del bello, c’è il senso della bellezza, c’è il senso del rispetto dell’uomo che non può finire con noi; checché se ne dica e se ne faccia, l’uomo deve continuare, l’uomo ha una missione enorme e l’arte va con l’uomo! Non mi si dica che l’arte è finita, non lo accetto, perché se c’è solo un Francesco Brunetti che fa cose del genere basterebbe per dire che l’arte è ancora viva, che l’arte deve essere propagandata.
Lo so, non c’è l’humus per l’arte oggi. Quando sono venuti meno quelli che sempre l’hanno aiutata e propagandata, gli stati, i personaggi importanti, tutti si sono rifiutati di aiutarla e allora bisogna addirittura essere grati a personaggi che continuano a lavorare, anche nell’indifferenza generale e che hanno dell’arte un senso così grande, un senso che li riempie, che li fa felici, che li porta al diapason, che li fa diventare metafisici ad un certo momento, perché voi capite che quando si fanno cose del genere la terra scompare, e la mente si unisce al divino, si unisce a Colui che ci ha fatti, in una certa maniera, e che dà alla nostra mente la forza di continuare così.
Oltre ai reperti (li chiamiamo reperti, e a questi reperti Francesco aveva dato dei numeri, addirittura, come si fa realmente), oltre ai reperti, Francesco aveva dei soggetti predestinati, dei soggetti fissi; guardate, gli artisti hanno degli amori per certe determinate cose, che riproducono, che riperfezionano, che portano avanti, e uno di questi era la “porta”.
Ecco che torniamo un po’ al tema che ci riguarda oggi. La prima porta che io ricordi, di cui parlai su una mia rivista era il monumento “ai Caduti” di Modigliana. C’era chi aveva fatto per i caduti tante cose, ma con un dolore enorme che diventava tragedia, che faceva veramente male al cuore, erano cose che rompevano quella memoria invece che dovrebbe essere serena ad un certo momento; nel monumento ai Caduti si dovrebbe vedere sì il sacrificio di chi è passato, ma è passato per un’altra via, per la via della vita, per la via dell’eternità. Ecco che a Modigliana lui fece queste due porte, porte che sono per metà aperte, ed è chiaro il sentimento è quello: le anime di quelli che si sono sacrificati, per la Patria in questo caso, trovano la strada, per congiungersi a chi è più alto, per sparire nella luce. Ecco che la porta era per lui questo significato. E così dobbiamo vedere quella porta che andremo ad inaugurare dopo: anche quella è una paratia tra la vita e la morte, è un passaggio (voluto? per forza? siamo uomini) voluto da tutti, che ci porta all’eternità, in fondo.
Ed ecco che quando gli si offrì di rifare la Porta di San Paolo fuori le Mura a Roma, lui partì con una gioia grandissima, andò sul luogo, e come faceva sempre, riuscì ad entrare nello spirito del periodo che doveva prendere in considerazione, in una maniera meravigliosa. Era il paleocristiano quello, e lui paleocristiano fu. Quella Porta è un piccolo gioiello: intanto parte dall’idea dell’Apocalisse secondo Giovanni ed è la rappresentazione di quella che sarebbe la Gerusalemme, la Gerusalemme celeste. E nelle creature che lui rappresenta, lì c’è il figurativo, giocoforza è un figurativo, noi notiamo che c’è lo stesso gusto per le creature che il paleocristiano faceva. Chi entra in san Paolo vede nella cappella di Galla Placidia quelle figure fatte alla stessa maniera, quei gioielli, quella profusione di pietre dure, fatte come lui aveva visto. Insomma, secondo me, oltre al fatto celeste, diciamo, al fatto di essere stato colpito addirittura da questa storia che è catechismo, che è fede, c’è anche il fatto in lui che era straordinario, quello di entrare nel momento storico che doveva rappresentare in una maniera straordinaria: lui era paleocristiano in quel momento, come quando fece quella Sacra Famiglia di Punta Anna fu un romanico, puro, erano le figure del romanico, ed è bello pensare che c’era la sua famiglia dentro, nella Madonna, nel Cristo, nel San Giuseppe c’erano i suoi familiari, c’erano i suoi genitori, ma tutto rappresentato con quella pulizia che lo stile romanico dà, con quell’essenza delle cose che lo stile romanico dà.
Sono le poche figure, diciamo, di Brunetti che amava molto di più l’astratto, che sentiva di più l’astratto, forse perché pensava che nell’astratto chiunque può vedere tutto, può arrivare a tutto, in spirito può arrivare al diapason, mentre il figurativo finisce in un certo momento per coartare la figura umana allo sguardo e a fare il controllo, diremmo, umanistico della creatura stessa.
Ad esempio, anche la figura del Cristo, che è una figura che lui ha trattato molto, se volete potete vedere in San Domenico, nella Biblioteca, un Cristo meraviglioso; è un Cristo romanico, in fondo, ed un Cristo, guardate, io lo ricordo quando lui mi parlava di queste cose, le ricordo molto bene; e un giorno mi disse “Io non posso mettere i chiodi nelle mani e nei piedi del Cristo, non posso tagliargli il costato, non ho il coraggio, non mi sento”. E infatti l’ho visto adesso, perché avevo perso di vista completamente le cose, che nei punti in cui i chiodi sono stati conficcati, in cui è stato tagliato il costato, ci sono delle pietre dure: è il segnale di quello che è stato fatto ma che è già stato portato ad un livello metafisico, superiore.
Negli ultimi anni della sua vita, pensate che lui fu colpito cinque anni prima di morire, sapeva quello che aveva e ha portato avanti con una dignità, con un amore, con una forza sovrumana il pensiero della morte, non è da tutti questo. D’accordo che ha avuto una compagna come l’Elisabetta, la quale lo ha aiutato in questo, ma sapete anche come artista, così preparato e bravo, che avrà avuto nella mente chissà ancora quanti disegni di cose da fare, il sapere che ci si deve fermare non è da tutti, e questo deve averlo torturato molto, ma da quel grande uomo che era, ha saputo superare anche questo.
Ebbene delle ultime cose voglio solo trattare quel suo disegno, io lo chiamo, quella sua opera fatta per la Madonna di San Luca, che è il ricordo, il ricordo perché nelle parole che lui scrive che sono meravigliose, dice addirittura che non ha voluto ritrarre quei due volti, della Madonna e del Bambino, per rispetto quasi al Santo, che ha fatto questa Madonna e per tenere negli occhi quel ricordo meraviglioso che lui aveva avuto da bambino, quando si era imbattuto nella Madonna che scendeva nel sottoportico, al Meloncello.
Sono le ultime cose e ci danno il dolore grandissimo di pensare che non ne seguano più delle altre, non ne avremo più delle altre di pari bellezza, di pari armonia, di pari candore in un certo senso.
Era un grande artista, lasciatelo dire a me che vivo nell’arte, che ho vissuto nell’arte, anch’io ormai sono dalla parte di quelli che se ne vanno, e quindi ho però una visione molto chiara di tutti i movimenti del novecento, di tutti gli artisti.
Ecco un’ultima cosa vorrei dire sulla Porta che andiamo a vedere adesso, che sarà un bellissimo regalo per Crespellano; guardate, quando c’è un monumento sulla strada si è obbligati a fermarsi, si è obbligati a guardare ma guardare anche nell’alto, non solamente nella Porta stessa, il monumento vuol dire questo “memento, ricordati”; ricordati in questo senso dell’artista che l’ha fatto, ricordati anche a chi è stato dedicato, perché è vero che l’altro giorno è stato festeggiato Saetti, che era lo zio di Checco, ma Bologna non ha giudicato Saetti per quello che realmente vale, guardate che è un grandissimo artista e se andrete a Dozza, sapete il paese dei muri dipinti, andate nella Rocca e guardate quel suo Sole, e vedete come il quel suo Sole ci siano tutte le meraviglie del creato, dove il colore diventa luce. Ecco vorrei che veramente vicino a questa Porta di Checco ci fosse il nome dello zio con più convinzione e che fosse studiato, di più, anche qui a Bologna, fosse ammirato di più, per quello che realmente è stato.
Di Francesco voglio dire una cosa sola. Io mi auguro che la mia piccola voce, perché sono una piccola voce nel grande mare della critica, arrivi a qualcuno, che ha le sorti dell’arte nella mente e che sia portato avanti, che sia spiegato, che sia propagandato, nella giusta misura, perché è un artista che realmente lo merita, per tutte le qualità che vi ho detto prima ma soprattutto perché credeva in quello che faceva e, credetemi, oggigiorno non sono molti i personaggi che fanno qualche cosa con la convinzione di essere nel giusto e di amare quello che fanno.
Io auguro una lunga vita artistica al nostro Francesco Brunetti.
In: “Francesco Brunetti mio marito” di Elisabetta Fréjaville, (1999) pp. 173-180,
* trascrizione a cura dell’autrice, approvata dalla relatrice
Come poche volte lo sono stato, sono in grande imbarazzo a dire il mio pensiero oggi per questa bellissima manifestazione. Prima di tutto un ringraziamento particolare da parte dell’Amministrazione comunale ma anche di tutta la cittadinanza di Crespellano, dei consiglieri comunali che oggi abbiamo presenti in rappresentanza di tutte le parti politiche che fanno parte del Consiglio comunale.
Un ringraziamento particolare perché ci è stata data questa seconda opportunità.
Ho conosciuto Francesco Brunetti per mezzo di Lorenzo Busacchi. Mi fu presentato, mi dissero “ti presento il professor Brunetti” e come tutte le cose, quando vengono presentate così, uno si prepara: il professor Brunetti, uno scultore, un artista ti infonde, come dire, non paura, ma soggezione. Beh, io vi devo dire che al primo incontro davvero quella soggezione non l’ho avuta: il professore, l’artista, lo scultore era una persona per con un aspetto semplice, di un cittadino qualsiasi, di una persona che aveva le caratteristiche nostre, di noi gente semplice, gente che è venuta dalla campagna, che ha avuto poca formazione, ma che a quell’incontro ci sentivamo “alla pari”. Questo fu il mio impatto.
Facemmo quella bellissima mostra, nell’ambito della nostra Festafiera, abbiamo avuto modo di stare insieme a lui alcuni giorni, nella preparazione, e credo che Lorenzo l’abbia ricordato benissimo. Ricordo come avevamo allestito quella mostra, per me difficile da capire, io lo dissi a Francesco “nella mia scarsa preparazione culturale queste cose faccio fatica a capirle”. Però devo dire che in un piccolo, brevissimo percorso avuto fra me, lui e Lorenzo, aveva messo in noi già qualche pensiero in più, ci aveva dato la possibilità di capire che dovevamo sforzarci. E l’abbiamo anche fatto.
Ho partecipato ad una mostra bellissima che fece a Bologna, prima divenire da noi e fui impressionato da queste cose che andavano al di là del mio pensiero.
Però l’artista è già stato ricordato. Io vorrei ora ricordare l’uomo.
Vedete, in ogni territorio ci sono delle risorse. Queste risorse bisogna saperle capire, bisogna saperle fare saltare fuori. Francesco Brunetti si è fatto scoprire da noi e per noi è stato una grande risorsa. Una risorsa che comunque ha fatto meditare, ha fatto elevare tutti noi, nella comprensione, soprattutto nella ricerca dello studio per capire le sue opere. Lo diceva bene prima la professoressa Giovanna Pascoli Piccinini.
Io ho avuto modo poche volte di stare insieme a lui, ma questa serenità d’animo che esprimeva Francesco era una cosa rara. Oggi viviamo tutti in modo agitato, molto frenetico. In lui credo di aver scoperto questa serenità d’animo, questa tranquillità, questo non esagerare mai le cose.
E guardate, anche se è stato un momento difficile per tutti noi, lo stesso giorno che l’abbiamo accompagnato, l’ultimo giorno, ho visto questa serenità nelle sue figlie, nella moglie, cosa che a me non è mai capitata. Io credo che questa sia anche la grande opera che ha saputo fare Francesco Brunetti.
Amava l’arte, amava la scultura, amava la famiglia, su questo non v’è dubbio. E nella famiglia ha saputo, secondo me, costruire il meglio. Per questo finisco con un ringraziamento a loro: a Elisabetta, a Chiara, a Sara e Genni. Per quella lezione che ci hanno dato quel giorno che hanno accompagnato Francesco per l’ultima volta. Per me è stata una grande lezione, una grande lezione per tutti.
Andremo a scoprire questo monumento, questo dono bellissimo fatto al Comune di Crespellano. L’abbiamo voluta, con una ricerca attenta e a questa ricerca abbiamo partecipato tutti, l’abbiamo voluta mettere in un posto dove vanno soprattutto i giovani, all’entrata del Centro Sportivo.
Sono convinto che quell’opera molti passeranno senza osservarla ma alcuni si fermeranno, la guarderanno, proveranno a capire. Questo sarà il grande messaggio che ha lasciato a noi Francesco Brunetti e che noi, Amministrazione comunale, vogliamo offrire al futuro ed ai giovani.
Vi ringrazio.
In: “Francesco Brunetti mio marito” di Elisabetta Fréjaville, (1999) pp. 181-183,
* trascrizione a cura dell’autrice, approvata dal relatore
Francesco Brunetti Scultore